mercoledì 18 giugno 2014

Esame di stato 2014: Il rammendo delle periferie


Renzo Piano e “il rammendo delle periferie” é la traccia proposta ai maturandi per il tema di ordine generale.  
testo proposto è tratto da «Il Sole 24 ORE» dello scorso 26 gennaio. «Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. [...] Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. [...] Spesso alla parola «periferia» si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città?».  

Nelle parole del noto architetto, rinomato in tutto il mondo e vanto della nostra nazione, la diagnosi e, vivaddio, la terapia di una malattia che rasenta ormai la cronicità;  causa e, nel contempo effetto, di un male di vivere di montaliana memoria che, inevitabilmente si va a riversare e tinge di sé ogni cosa, in primis l’habitat, lo spazio entro il quale si muove e vive il popolo del nostro Bel Paese.

Che Renzo Piano abbia trovato nelle periferie l’eventuale soluzione di tanta “fragile” bruttura - che, come abbiamo già detto, è solo il riflesso di un malessere interiore generalizzato, materializzatosi nella crisi attuale – non è stranezza. Se è vero che “periferia” è termine che si associa solitamente a degrado, è anche vero che  è sinonimo di paese,  un luogo dove ancora si resta immuni da quella sorta di omologazione e anonimato che affligge le grandi metropoli, provocando e acuendo sino allo spasimo una solitudine  incupente  in quanto nata dall’isolamento, più o meno conscio, in cui ci si trova invischiati senza quasi accorgersi. Ecco allora che il paese, bistrattato per anni dalla spocchia delle grandi città  dove convogliava e si inseguiva in modo frenetico il progresso in ogni settore, torna ad essere il perno di una eventuale rinascita per tutta la nazione. Qui, nel paese, i tempi erano e sono più distesi, ci si chiama ancora per nome e, più o meno noti, ci si conosce tutti; qui, la manutenzione dei sentimenti, aiutata da un confronto quotidiano  col semplice vicino, diventa più facile, accessibile, e la “cittadinanza” ad uno stesso luogo  diventa quasi una sorta di familiarità che legittima un’amichevole intimità reciproca.  Qui, più che nella grande città, si sente ancora il valore della fratellanza che, in tempi così cupi, se non sana, conforta.

Si è pertanto legittimati a pensare che il rammendo a cui fa cenno Renzo Piano si riferisca proprio ad una specifica emergenza: ricucire i fili sospesi dei grandi ideali che hanno fatto grande la nostra Nazione e che vagolano, come fili impazziti nel vento, nel marasma della grandi solitudini metropolitane,  alle loro radici, ancora  salde in ambienti più contenuti come un paese.  Allora, e solo allora, sarà possibile riappropriarci del significato del “bello” che, per estensione e secondo un’antica etimologia greca, è anche sinonimo di buono e significativo, prezioso – e a questo proposito, Kant docet:  nella Critica del Giudizio dichiara che “il bello è il simbolo del bene morale”. 

Non è un caso che, accanto al grigiore che pervade le periferie, che, per usare i termini del Nostro,  ricordano la desolazione di deserti o la pace mortifera di un dormitorio, emerga come un fungo,  la ristrutturazione di qualche chiesina che un sindaco e la sua giunta, entrambi di buona volontà, hanno voluto e potuto restaurare per salvaguardare, non solo un pezzo di storia della propria terra, ma anche la parte sana di una nostalgia.  È nella nostalgia che il ricordo del “com’era” una casa, un edificio, una chiesa,  richiama e preserva la loro primordiale bellezza e la volontà a ripristinarla. E da questa volontà, a quell’energia umana di cui parla Piano, il passo è breve. 

Del resto, la buona manutenzione di strutture che hanno fatto storia in un territorio, e sono, pertanto, il simbolo di un’ epoca e di una società, non giova solo ad agganciare il passato al presente,  ma a salvaguardare un preciso valore: se è vero che il termine simbolo evoca letteralmente  un “mettere insieme”, un “tenere insieme”, allora la cura di quell’edificio rifletterà la volontà di una comunità di conservarsi e restare unita, esaltando e conservando ciò che fa parte della propria essenza.  A conferma di tutto ciò, basti pensare che molti paesi della nostra zona, sono riconosciuti e riconoscibili attraverso il monumento che, inevitabilmente, li caratterizza:  la statua del Crocifisso a Cutro, la chiesa della Santa Spina a Mesoraca, la colonna del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna.

Se è vero quanto esposto sin ora, se, come afferma Renzo Piano, urge un rammendo tra la periferia e la città, non resta che auspicarci che sia la città a contenere “tanti pezzi di paese” che la rigenerino fin dalle fondamenta e consegnino alle nuove generazioni un percorso sicuro e valido, non solo per la rinascita, ma per una conservazione ottimale di una terra, la nostra, che ha sempre brillato per intime e insolite bellezze. Solo così, parafrasando un verso di Emily Dickinson, nessun tramonto riuscirà a trovarci