Renzo Piano e “il rammendo delle
periferie” é la traccia proposta ai maturandi per il tema di ordine generale.
testo proposto è tratto da «Il Sole 24
ORE» dello scorso 26 gennaio. «Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma
allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le
città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far
manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si
concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli.
C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. [...]
Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso
un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle
città sono le periferie. [...] Spesso alla parola «periferia» si associa il
termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie
sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi
di città?».
Nelle parole del noto architetto, rinomato in tutto il mondo e
vanto della nostra nazione, la diagnosi e, vivaddio, la terapia di una malattia
che rasenta ormai la cronicità; causa e, nel contempo effetto, di un male
di vivere di montaliana memoria che, inevitabilmente si va a riversare e tinge
di sé ogni cosa, in primis l’habitat, lo spazio entro il quale si muove e vive
il popolo del nostro Bel Paese.
Che Renzo Piano abbia trovato nelle periferie l’eventuale
soluzione di tanta “fragile” bruttura - che, come abbiamo già detto, è solo il
riflesso di un malessere interiore generalizzato, materializzatosi nella crisi
attuale – non è stranezza. Se è vero che “periferia” è termine che si associa
solitamente a degrado, è anche vero che è sinonimo di paese, un
luogo dove ancora si resta immuni da quella sorta di omologazione e anonimato
che affligge le grandi metropoli, provocando e acuendo sino allo spasimo una
solitudine incupente in quanto nata dall’isolamento, più o meno
conscio, in cui ci si trova invischiati senza quasi accorgersi. Ecco allora che
il paese, bistrattato per anni dalla spocchia delle grandi città dove
convogliava e si inseguiva in modo frenetico il progresso in ogni settore,
torna ad essere il perno di una eventuale rinascita per tutta la nazione. Qui,
nel paese, i tempi erano e sono più distesi, ci si chiama ancora per nome e,
più o meno noti, ci si conosce tutti; qui, la manutenzione dei sentimenti,
aiutata da un confronto quotidiano col semplice vicino, diventa più
facile, accessibile, e la “cittadinanza” ad uno stesso luogo diventa
quasi una sorta di familiarità che legittima un’amichevole intimità
reciproca. Qui, più che nella grande città, si sente ancora il valore
della fratellanza che, in tempi così cupi, se non sana, conforta.
Si è pertanto legittimati a pensare che il rammendo a cui fa
cenno Renzo Piano si riferisca proprio ad una specifica emergenza: ricucire i
fili sospesi dei grandi ideali che hanno fatto grande la nostra Nazione e che
vagolano, come fili impazziti nel vento, nel marasma della grandi solitudini
metropolitane, alle loro radici, ancora salde in ambienti più
contenuti come un paese. Allora, e solo allora, sarà possibile
riappropriarci del significato del “bello” che, per estensione e secondo
un’antica etimologia greca, è anche sinonimo di buono e significativo, prezioso
– e a questo proposito, Kant docet: nella Critica del Giudizio dichiara
che “il bello è il simbolo del bene morale”.
Non è un caso che, accanto al grigiore che pervade le periferie,
che, per usare i termini del Nostro, ricordano la desolazione di deserti
o la pace mortifera di un dormitorio, emerga come un fungo, la
ristrutturazione di qualche chiesina che un sindaco e la sua giunta, entrambi
di buona volontà, hanno voluto e potuto restaurare per salvaguardare, non solo
un pezzo di storia della propria terra, ma anche la parte sana di una nostalgia.
È nella nostalgia che il ricordo del “com’era” una casa, un edificio, una
chiesa, richiama e preserva la loro primordiale bellezza e la volontà a
ripristinarla. E da questa volontà, a quell’energia umana di cui parla Piano,
il passo è breve.
Del resto, la buona manutenzione di strutture che hanno fatto
storia in un territorio, e sono, pertanto, il simbolo di un’ epoca e di una
società, non giova solo ad agganciare il passato al presente, ma a
salvaguardare un preciso valore: se è vero che il termine simbolo evoca
letteralmente un “mettere insieme”, un “tenere insieme”, allora la cura di
quell’edificio rifletterà la volontà di una comunità di conservarsi e restare
unita, esaltando e conservando ciò che fa parte della propria essenza. A
conferma di tutto ciò, basti pensare che molti paesi della nostra zona, sono
riconosciuti e riconoscibili attraverso il monumento che, inevitabilmente, li caratterizza: la statua del Crocifisso a Cutro, la chiesa della Santa
Spina a Mesoraca, la colonna del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna.
Se è vero quanto esposto sin ora, se, come afferma Renzo
Piano, urge un rammendo tra la periferia e la città, non resta che auspicarci
che sia la città a contenere “tanti pezzi di paese” che la rigenerino fin dalle
fondamenta e consegnino alle nuove generazioni un percorso sicuro e valido, non
solo per la rinascita, ma per una conservazione ottimale di una terra, la
nostra, che ha sempre brillato per intime e insolite bellezze. Solo così,
parafrasando un verso di Emily Dickinson, nessun tramonto riuscirà a trovarci