venerdì 20 settembre 2013

Angela Caccia: Una poesia che cerca la speranza, il bagliore - Recensione di Cinzia Demi




Fa sempre un certo effetto il “sentirsi raccontati” attraverso i propri versi. Di fondo, un disagio – il mio primo approccio all’articolo che mi riguarda, ha una media di un rigo letto e tre no; il secondo, non perde le virgole. È il disagio di una consapevolezza: aver lasciato in una poesia tracce ineludibili di un sé che, in un distico, cerca ora una foglia di fico ora un manto di stelle per affrontare la notte – quando questa si fa montagna e tenta di travolgerti.

Se poi finisci sotto i riflettori di un altro poeta, magari tra i più fini – uno per tutti, Cinzia Demi – ti accorgi che non hai scampo: la tua nudità è stata raccolta tutta, in ogni anfratto e pulviscolo.

Fortuna che un poeta ha mani morbide, mani da topografo: non gli servono navigatori, il poeta che legge un poeta, va a naso, sa dove cercare e trovare il punto di fuga da cui si stende l’anima.


Il mio grazie alle preziose mani di CINZIA DEMI.




Una poesia che affonda le sue radici nel sacro e che sembra cercare la speranza nel silenzio che la innamora, come fosse la dimensione più giusta, quella dove le parole, dove la poesia stessa può diventare necessariamente anche preghiera.


Angela Caccia è nata e vive a Cutro in provincia di Crotone. E’ alla sua seconda raccolta poetica dal titolo Nel fruscio feroce degli ulivi (FaraEditore 2013) uscita con prefazione di Davide Rondoni. Il suo primo libro Il canto del silenzio è del 2004 (ICI, Napoli). L’autrice nelle indicazioni per la sua biografia afferma che il suo essere si condensa in tre verbi, tutti focalizzanti l’agire reiterato che aggettivizza: curare, giocare, viaggiare. L’amore fa da sfondo alla cura per il suo mondo di affetti, il gioco riflette la sua precisa visione della vita, il viaggio le permette di uscire da se stessa per poi ritrovarsi. E, in un’altra affermazione che riportiamo, dice ancora di se stessa: […] Poi un bel giorno mi chiesi chi fossi e rinvenni una tipa. Per alcuni versi la trovai estremamente buffa. La congedai. Il recupero dell’autenticità fu lungo ma non faticoso, probabilmente ero sempre rimasta nei paraggi di quel centro che oggi sento casa.[…] Cos’è la casa per Angela Caccia? Probabilmente la poesia, il far parte di questo mondo prima frequentato, poi abbandonato per qualche anno, poi di nuovo fortemente cercato e voluto; un mondo in cui tentare di rientrare in punta di piedi ma con la determinazione necessaria, e con la forte consapevolezza del proprio ruolo. La scrittrice, molto attiva anche come organizzatrice di eventi, è presidente dell’Associazione culturale Le Madie di Cutro, nata nel 2006, e federata a Bombacarta, associazione/federazione con sede a Roma, ideata e diretta dal gesuita e noto critico letterario Antonio Spadaro.
Del libro di cui proponiamo qualche testo, Davide Rondoni dice:
«Ci sono momenti di perfetta visione in questo libro di Angela Caccia. Come nel testo dedicato alla morte di una figura cara, alla quale si rivolge dicendo “tu
l’avrai varcata con pudore / a mani alzate / nel buio ignoto // un soffio improvviso di limoni / quel fiotto di luce / la tua vittoria”. Oppure nel principiare di un testo dove quasi martellante si fa il verso: “Spiga senza
grano / alle tue notti / mancò sempre una stella // e camminammo tutti nel / lato in ombra della strada”.

O ancora dove in una poesia d’amore paragona sé stessa alla rondine che vola bassa sul mare. »
La poesia che apre la silloge e che ha il nome specifico ed emblematico di Incipit ci sembra essere in perfetta sintonia con quanto detto da Rondoni perché propone una visione, una visione di speranza, che si annida nell’ascolto di quel fruscio feroce degli ulivi – verso che dà il titolo a tutto il libro – e che troviamo declinata nel testo, specie nei versi finali che si aprono ad un’altra storia, ad una storia senza fine che tiene insieme la vita stessa:
INCIPIT
Nasciamo nella penombra di una grotta
per tutti rotola giù dal Tabor una scintilla
ognuno ingoia del suo pianto nel
fruscio feroce degli ulivi ignari
ascolta il gallo, il verso del tradimento e 
ogni lingua fasi pietra. Sale un Calvario
e fa leggero il passo che va per affondare
incontra mani che si colmano della sua pena o
un’altra spalla al posto suo si piega
......... e gli concede fiato.
Muore, e fino all’ultimo è spazio tempo e sogno
Muore perché non è più racconto.
Resta una traccia, forse un sentiero
È solo un dubbio!
“C’era un sepolcro profumato e vuoto…”
È l’incipit di un’altra storia
Il fodero di questa vita.

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Vincent Van Gogh, L’Uliveto

.
*****
Poesia che affonda le sue radici nel sacro dunque, quella di Angela Caccia, e che sembra cercare la speranza nel silenzio che la innamora, come fosse la dimensione più giusta, quella dove le parole, dove la poesia stessa può diventare necessariamente preghiera:
FORSE UNA PREGHIERA
Quante volte s’ammala la speranza e
la solitudine è più sola…
Ti perdo tra i fili
ai limiti d’ogni pensiero Ti ritrovo
e piovono note senza musica
non le sento eppure mi bagnano
se il regno non mi sembra più vuoto.
Quella parola che spiega
mi compiace
e sa quadrare il cerchio
m’è preziosa
ma quanta poesia nel silenzio di una rosa…
............lo ascolto
....................aspetto mi stupisca
................................ e lui m’innamora.
*****
L’autrice è anche curatrice di un blog culturale Il ciottolo che ricalca il titolo di quest’altra poesia che proponiamo, i cui primi tre versi sono un’ulteriore definizione dell’intimo sentire della Caccia che, evidentemente, ama raccontarsi con brevi ma intensi messaggi. Qui il ciottolo è metafora dello stesso poeta che vive il quotidiano nell’ascolto, nell’attesa di un momento da cui possa sgorgare la poesia stessa per nutrirsene e che ritorna, nei momenti di assenza di questa, nel disincanto poetico, un’anima in attesa dell’aurora:
IL CIOTTOLO


Vivo la mia periferia
nell’insana nostalgia del centro
- dice il Cuore.


Mi attraversa il quotidiano
come pena senza nome
e pianto i miei passi nel buio
alla ricerca dell’istante aurorale
di un boccio di tempo fermato


lì si fanno mare i miei rivoli
il cielo è di silenzio caldo
che zampilla in parole
forse poesia.


Fuori dall’incanto
torno il ciottolo assetato di sale.
*****
Dice ancora Rondoni, nella prefazione: «[ci sono testi in questo libro] che nascono in una donna che pensa e ripensa a sé stessa – e in primis dunque – ai legami importanti che la abitano. Il padre, il figlio, l’amato. E la poesia viene chiamata qui, quasi convocata a forza, per poter essere luogo e voce di tale pensare e ripensare, quasi altro discorso “che costa sangue” ma che unico può testimoniare il tessuto (il “fodero”) di una vita. Non a caso in tale ripensare, Angela Caccia si appoggia non solo a grandi letture letterarie, come nel caso di due nomi che compaiono quasi a dare l’arco intero di un Novecento di cui sono in un certo senso gli opposti (Celan e Borges) ma, anche e soprattutto, alla grande narrazione della fede, che troviamo liberamente
attraversata e rivisitata nelle sue figure fondamentali.»

Sono diversi infatti i testi dedicati alle figure fondamentali della fede cristiana, oltre al fatto - come abbiamo già accennato - che in tutti i componimenti sembra affiorare la forte religiosità dell’autrice, insita del resto in quella stessa terra dove vive e che le ha dato le origini, in quella conchiglia sul mare di Calabria – come lei stessa definisce la sua Cutro, dove i riti e i miti si fondono con la forte fede, anche nelle sue manifestazioni più estreme - . Di questa religiosità dell’autrice ha parlato, durante una delle presentazioni del libro, il Vescovo di Noto, Sua Eccellenza Antonio Staglianò, ricordando tra l’altro il significato rigeneratore dell’atto poetico. Un registro la cui importanza consiste nel dare spazio alla realtà simbolica messa all’angolo da una ragione sempre più strumentale e formale. «Il concetto di bellezza insito nella poesia è tale - ha sottolineato il Vescovo - perché orienta l’umanità verso il buono, nobilita l’animale-uomo che si fa umano perché ha in sé il divino». Una divinità che non sussiste in quanto pura astrazione, non si pone al di là dell’umano ma lo qualifica caratterizzandone l’essenza. E la Caccia, facendo sua certo questa definizione della poesia, non manca di proporre momenti alti, dove il concetto di bellezza di cui è portatrice l’arte poetica – come tutte le arti – emerge fortemente, si fa creazione:
L’ATTIMO CREATIVO
Una fiammata. Punge e
trafigge da parte a parte
costeggia bordure di ricordi
aiuole di dolori ormai scaduti e
ancora lì, a macchiare di secco
il verde tenero di ogni fioritura
liquida densità muta
senza un contenitore.
Nel suo farsi e disfarsi
........ cos’è il poeta se non scrive
....... … una foglia gialla
ruga la strada
......... svolazza
....................si adagia
.................................. si slancia ancora
traccia solchi nell’aria
disperde il suo lamento in canto.
Cerca le chiavi della primavera
............ una parola ustionata di realtà
......... la tunica senza cuciture
......... e sa che costa sangue.
*****
Nel racconto che si fa poesia, nella necessità dell’autrice di narrare, durante il percorso del libro, la propria storia non mancano momenti in cui questa storia singola diventa comunque universale. Dice ancora Rondoni: «Il suo autoritratto, per così dire, avviene di fronte e dentro al mondo, non in una separatezza, o in un tranquillo luogo chiamato dai più – errando –letteratura.
» E’ il caso della poesia dedicata al figlio, dove è impossibile non riconoscere i tratti affettivi, le gioie e i dolori, la complessità di quel ruolo materno che, a cominciare da quello originario incarnato dalla figura dellaVergine Maria, non ha mai mancato di affascinare poeti e pittori per la vastità dei suoi orizzonti. E non può certo dirsi altro se non universale:

SAPEVI DI BOZZOLO
La pagina bianca che
avrei scritto
così mio mi allungavo di te
io il ramo tu la foglia
ero il Piccolo Principe
tu la rosa.
...Sapevi di bozzolo e
modulavo al tuo respiro
il mio a farti compagnia
... … odoravi di buono
......... nel castello
......... con me
......... tra le fate.
Piangevi e mi bagnavi le labbra
supplicai in silenzio l’istinto
in silenzio crebbi madre.
Passeggiammo poi in un crinale di solitudini
con bolle colorate di rabbia e d’allegria
- strane alchimie della pubertà.
Ora sei altro da me
Ora sei l’uomo che io sognavo
e tu non speravi. Ho spinto il tempo
e lui ti ha colmato di sé
lui ha spalancato a freddo quest’anima
che era nostra, che era una.
La tua è la metà vigorosa
non ha sofferto il taglio
la mia è di madre
e non legittima dolore.
*****

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Angela Caccia

Ho conosciuto recentemente Angela Caccia e mi è subito sembrata una bella persona, aperta e solare se pure non mi è sfuggito un cero senso di soffocata inquietudine, di mal celata nostalgia per il suo stato iniziale di poeta, trascurato per le cose della vita che - probabilmente - l’hanno impegnata a tal punto da farle sospendere lo status che oggi, per fortuna, è tornata ad incarnare. Sono certa che il suo sarà un continuo divenire verso una poesia che ha ancora molto da cercare, da affrontare, da raccontare.
Concludo il mio intervento su di lei con un’ultima citazione, presa dal testo Il paradosso, che chiude il libro in esame e che denota quasi una morale a cui giunge il poeta, alla fine del suo percorso: laddove crediamo di trovare delle verità, delle certezze non è detto che queste siano così accessibili, verificabili con le nostre interpretazioni:
[…] non servirà più fegato per
le tossine né cervello che
dia senso ai sensi
ogni significato sarà 
lampante e cosa buona
il paradosso della morte…
avremo le chiavi della Verità
e mancheranno le porta.
Angela Caccia, su mia richiesta ha gentilmente acconsentito a pubblicare per Missione poesiaalcuni testi inediti della nuova silloge a cui sta lavorando e che ha, provvisoriamente, intitolatoNella penombra del corvo, antica locuzione ebraica con cui si indica la dolcezza del tramonto. Con questi testi, ci sembra di poter dire che Caccia si riconferma poetessa dai temi e dai toni religiosi che diventano modalità non solo poetica ma modus vivendi da cui trarre ispirazione per nuovi versi.
LE BRACCIA ALLUNGATE
Morire d’emblée
sottrarsi alla sacca
del tempo che
tacca lo sguardo
lasciare
ammassati in ripiani
gomitoli di sogni
ricordi.
Si è aperta la gabbia di carne
divelto il piede da terra
basterà un solo
colpo di reni
e voilà…
al di là del confine
un altro passante
tra i sentieri del vento.
Morire magari
con la luna dei monti
in un coro di stelle
nel silenzio di rose selvagge
a chi amo
tra un’eco e la voce
il mio amen
e le braccia allungate
dell’alba.
*****
STUPORI
Svegliarti
e accorgerti che
i passeri
già prima di te
la aspettavano
spazzati i cisponi
della notte
tornano danzanti
i rami
ora quasi beffardi
eppure tremarono le ginestre
e qualcuno lanciò sassi
alle finestre ancora chiuse
dell’alba
si addensino pure le nuvole
carri di guerra alle frontiere
striscino dalle tane le bisce
che avvelenarono ieri
il bosco e’ tornato prato
nulla può sottrarre all’oggi
il nuovo raggio che
battezza il giorno.
Cinzia Demi
P.S. “MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani. QUI, il link Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito cliccando su "rispondere all’articolo" o scrivendo direttamente alla curatrice stessa all’indirizzo di posta elettronica: cinzia.demi@fastwebnet.it

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