mercoledì 19 giugno 2019

Camminamento n. 6 – Sergio Pasquandrea

CAMMINAMENTI

trincee o scavi, comunicazioni tra opere
fortificate e le immediate retrovie (… praticamente Poeti)


Camminamento n. 6 – Sergio Pasquandrea



È poesia che si srotola tutta su un gioco sottile, estremamente elegante, a tratti ironico in altri drammatico. Non c’è lirica, non un distico, che non nasca da un ampio o minuscolo pezzo di realtà, per lo più quotidiana –la più difficile, quella atta di piccole cose che, se incastonate nell’arco della giornata, ti restituiscono un senso di pienezza, quasi un premio di cui ti stupisci: non hai fatto nulla di epocale e, forse, è proprio in ciò il tuo atto eroico: nell’averlo fronteggiato ed essere uscito indenne da quel quotidiano e la sua morsa.
Il linguaggio di una disarmante semplicità –prerogativa dei grandi che Raffaele Lacapria ha magistralmente sintetizzato nella sua teoria dell’anatra- acquista piano il timbro di una voce che il lettore riconosce subito perché intima,familiare: ogni lirica pare abbia la stessa intestazione e un solo destinatario: caro me...
Lo pensavo tre anni fa dalla lettura della silloge Oltre il margine.
Ieri e ancora, le sue liriche intrigano per quella strana atmosfera: da subito si instaura come una confidenza tra testo e lettore. Poeta dell'istante, lo cattura lo elabora e ti aggroviglia talmente che fai fatica a capire chi sia il vero e originario artefice di quella emozione.


A domanda, ha risposto ...

Sia la poesia, sia l’amore cominciano solamente nel momento in cui si abbandona ogni lotta. Ma questo succede soltanto nell’ora prestabilita, come il risveglio alla fine di un sogno. Da una lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik, datata 22.2.1963. A cosa bisogna arrendersi perché la parola diventi poetica?

 Onestamente non credo che la parola debba "diventare poetica". Anzi, non c'è niente di peggio di una parola che voglia per forza essere poetica: facilissimo che si scada nel poetichese, ossia in quel gergo fatto di sostantivi senza articolo, metafore scontate, lessico stereotipato, tramonti, gabbiani ed estasi a buon mercato. Per quel che mi riguarda, una poesia deve avere soprattutto due caratteristiche: un buon senso del ritmo e la capacità di farmi vedere ciò che prima non vedevo. Una volta che ci sia questo, si può fare poesia su qualunque soggetto, dai pediluvi alle blatte (e non sto affatto scherzando). 
Invece, sono d'accordo con Cristina Campo quando parla di "abbandonare ogni lotta". Una poesia nasce a un livello superiore, o inferiore, ma insomma diverso, rispetto a quello del pensiero cosciente, un livello in cui l'intuizione prende il posto della coscienza e la mente funziona per salti e per scarti, più che per connessioni lineari. Perché ciò avvenga, bisogna smettere di volere e lasciare che le cose accadano. È un processo simile a quello della meditazione zen. 
Come scriveva Shelley in "A Defence of Poetry":

“La poesia non è come il ragionamento, una facoltà che si possa esercitare secondo la determinazione della volontà. Un uomo non può dire: 'Scriverò una poesia'. Nemmeno il più grande dei poeti può dirlo, perché la mente creatrice è simile a un carbone semispento, che un'influenza invisibile, come un vento incostante, risveglia a una brillantezza transitoria.”

Vuoi per convenzione, vuoi per prendere le distanze dalla prosa dove meglio si dipana "un ragionamento, una facoltà che si possa esercitare secondo la determinazione della volontà”, quella parola con le due caratteristiche da te indicate -e, per ciliegina, magari, una buona musicalità- io la chiamo comunque poetica.
Ma spostando l’attenzione dalla poesia al poeta, Brodskij nel finale del suo discorso al Nobel: “ Chi scrive una poesia la scrive prima di tutto perché la versificazione è un colossale acceleratore della coscienza, della percezione del mondo. Una volta provata tale accelerazione, l'uomo non è più in grado di rinunciare a ripetere questa esperienza, diventa dipendente da questo processo”. Non ti sembra che si stia accostando il poeta ad un parresiasta, dove parresia non è solo un palar chiaro ma implica - per dirla con Salvatore Natoli - quella curvatura riflessiva su di sé che spinge, vuole cercare la propria verità ?

 Sostanzialmente sì, ma il mio dubbio è un altro. Da come la descrive Brodskij, la poesia somiglia pericolosamente al meccanismo della dipendenza psicologica, per cui l'esperienza del piacere provoca la coazione a ripeterlo. Non è un bel pensiero, se uno invece ritiene – come ritengo io – che l'uomo debba liberarsi dalle dipendenze, prima fra tutti la dipendenza dall'Io, dal Sé.

E qui veniamo alla seconda parte della tua domanda: il poeta è uno che cerca la propria verità? Probabilmente, ma siamo sicuri che finisca tutto lì? In molti casi, purtroppo, sì, finisce tutto lì. Più che parresia, tanta poesia mi pare onfaloscopia, osservazione del proprio ombelico. E illusione che il proprio ombelico coincida con il mondo. E quindi volontà di esibire le proprie viscere.

Quando gli antichi sapienti greci invitavano a "conoscere se stessi”, non intendevano che il sé è il centro del mondo, ma al contrario invitavano a riconoscere la propria finitezza e limitatezza. C'è un testo, nel mio ultimo libro, che esprime tutto ciò, e si intitola – non a caso - “Contro la poesia”. 

Insomma, più che curvarsi sul sé, a me piacerebbe estendermi verso il fuori, verso l'altro. Anche a costo di smettere di scrivere e cominciare a vivere (e infatti, te lo dico in confidenza, è un bel pezzo che non scrivo quasi più nulla.)

Paul Celan, dal discorso pronunciato per il conferimento del Premio di Letteratura di Brema: La poesia, essendo una manifestazione della lingua, e perciò per sua essenza dialogica, può essere un messaggio nella bottiglia, lanciato nella fiducia, certo non sorretta da ferma speranza, che la corrente la spinga comunque in qualche luogo, ad una terra; terra del cuore forse. Le poesie si dirigono verso qualcosa. Che cosa?

Nel mio ultimo libro, ho messo in esergo un verso di Fortini che amo molto: “Nulla è sicuro, ma scrivi”. Per ora, è l'unica risposta che ho trovato. Poi, uno spera sempre che le poesie arrivino da qualche parte, ma dove non si sa: per sua stessa natura, il messaggio nella bottiglia non ha un destinatario certo.

Purtroppo (per fortuna?) sono finiti i tempi in cui il poeta aveva un ruolo sociale ben riconoscibile e una missione ufficiale da svolgere; oggi, si scrive in un vuoto rumoroso, popolato di voci che si accavallano e accapigliano, che competono per emergere, e non è certo una situazione favorevole alla poesia, che invece richiede concentrazione e raccoglimento.

Per riallacciarmi a quanto dicevo sopra, l'augurio è che, quando si scrive, non si tratti solo di autoreferenzialità, ma che quanto si dice possa essere condiviso da qualcuno; però chi sia quel qualcuno, e persino se ci sia un qualcuno, non lo si può sapere.

Mark Strand da L’alfabeto del Poeta: E sta per endings, finali, i finali delle poesie, le ultime parole concepite per rimetterci in libertà nel nostro mondo con l’illusione momentanea di non aver subito alcun danno.

Ironia, sottile allarmismo, comunque una mente eccelsa, Strand paventa due mondi: quello, forse parallelo, della poesia e il “nostro” dove, affrancati da un verso finale, torniamo in libertà, ma liberi da cosa? E quale danno si può subire da una poesia ?
  
Beh, certi “instapoets” contemporanei di danni ne fanno, eccome. Da prof di letteratura, posso dire con certezza che un video di Francesco Sole, o una paginetta di Gio Evan o di Rupi Kaur, neutralizzano tre mesi del mio lavoro.

Al di là delle boutades, la (buona) poesia educa al gusto e alla sensibilità, e questo nel mondo contemporaneo è già un bel danno. Ma credo che Strand intendesse soprattutto dire, in maniera un po' ironica, che una grande poesia lavora in profondità e va a dissestare, spesso in modi invisibili e sotterranei, le nostre certezze sul mondo. C'è una celebre frase di Kafka, secondo cui i grandi libri devono essere “un'ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi”. Vale anche per le poesie.

I libri non devono rassicurarci. Se esco da un libro senza aver avuto almeno uno shock cognitivo, allora non valeva la pena di leggerlo.


Bio bibliografia

Sergio Pasquandrea è nato a San Severo (FG) nel 1975. Dai primi anni Novanta vive a Perugia, dove insegna Lettere in un liceo.
Nel 2014 è uscita la sua prima silloge, intitolata Approssimazioni (Pietre Vive/iCentoLillo) seguita da Oltre il margine (Fara, 2015), Un posto per la buona stagione (Qudu, 2016), Approssimazioni e convergenze (Pietre Vive, 2017) e Sono un deserto (Lietocolle, 2019).
Ha inoltre pubblicato due plaquette: Topografia della solitudine (in “Pubblica con noi”, Fara 2010; seconda edizione, in e-book e audiolibro: Pietre Vive, 2017) e Parole agli assenti (in “Contatti”, Smasher 2011).
Collabora come giornalista e critico musicale con il bimestrale “Jazzit” e con i blog “Nazione Indiana”, “La poesia e lo spirito”, “Jazz nel pomeriggio”, “Words Social Forum”, “Artmaker”, “Carte Sensibili”. Ha pubblicato nel 2014 il volume di racconti Volevo essere Bill Evans (Fara) e nel 2015 il saggio Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e in nero (Arcana Editrice). In uscita, per EDT, il saggio Brad Mehldau. Ritratto di un pianista eclettico, scritto in collaborazione con Carlo Morena.
Nel 2007 ha conseguito un dottorato in Linguistica presso l'Università di Pisa; dal 2007 al 2010 ha lavorato come assegnista di ricerca presso l'Università per Stranieri di Perugia, dal 2010 al 2015 è stato cultore della materia in Sociolinguistica presso l'Università di Perugia.
Gestisce due blog: “Ruminazioni” (http://ruminazioni.blogspot.it) e “Gusci di noce” (http://guscidinoce.wordpress.com).

Testi



Da “Topografia della solitudine. Diario newyorkese” (Fara, 2010; Pietre Vive, 2017)

70, WASHINGTON SQUARE SOUTH

Difficile guardare
guardare e basta. Si cercano sempre scampoli
di significato familiare
anche nel catrame unto di fumo salato
o nella luce che rimbalza a ferirti
al primo attraversamento di Madison Avenue. E invece
bisognerebbe che tutto fosse indifferente.

La mente è una trappola.

Lo scoiattolo si affaccia alla finestra
e guarda dall’alto l’incastro dei rumori
la luce gli sfina la coda
e tutta New York è un piano inclinato di intersezioni
e alleanze.
Il giorno finiva sempre all’imbocco della strada
anche se durava ancora al vertice

 e il non capire aiutava
si era nudi come nei sogni
che ti tradiscono il respiro tra le costole.
Eri un atlante le membra sparpagliate
nessuno a ostacolarti il circolo
virtuoso dei pensieri
l’impigliarsi trionfante sempre nello stesso
crocicchio la combustione gioiosa.

* * *

SOTTO NEW YORK

si dice, c’è la città dei topi.
Io avevo trovato un ingresso
sulla 76esima West, nel muro del ripostiglio.
Dell’ospite ho visto le mani
(una volta) e l’orma dei denti sul biscotto.
Era uno dal sangue veloce
io dormivo radente alle sirene
lui limava la notte attorno alle lenzuola.
Finì che gli otturai la tana
non c’era dialogo possibile
tra la sua fame e la mia.

 * * *

Da “Parole agli assenti” (in Aa. Vv., “Contatti”, Smasher, 2011)

 MOI EST UN AUTRE

 No non ricordo mai i sogni
che faccio e non so se sia
un bene o un male se si tratti di igiene
o di vergogna disertare di giorno
le stanze che abito di notte non so
nemmeno che cosa pensi di me
quell'altro – se questa musica perfetta e ineseguibile
me l'abbia spedita lui in amicizia
oppure per sfottermi.

 * * *

SULLA POSSIBILITÀ DI UN EDEN

 È solo per chi le vede la prima volta
che le case del Tuscolano sono gialle
le siepi rosse il cielo viola per metà
per l'altra verde. Ma non si può far altro
che proseguire immergersi nel pulviscolo dorato
lasciandosi alle spalle ogni
alternativa procedere verso il sole
sciolto nel mare oltre Fiumicino.

 * * *

Da “Approssimazioni” (Pietre Vive, 2014)

 ONIROMANZIA

Le città in cui ti sogno hanno sempre
topografie impossibili
mi costringono a giri viziosi
a incroci paralizzanti

stanotte poteva essere Pescara tanto
erano orizzontali le geometrie
però gli attraversamenti non erano mai affidabili
una fatica fendere il grigio

perché come al solito mancava il sole
e in quel crepuscolo un lucore e quello
rincorrevo sperando fosse una scaglia
del tuo odore il refe da riavvolgere

sai nei sogni a volte succede si raggiunge
la felicità la si trattiene
anche con un po' di violenza se proprio
è necessario.

 * * *

ECONOMIA DEI RICORDI

 Sarà un sintomo certo
(ma di cosa?)
ti penso sempre staccata su schianti
di spuma fredda
sempre di spalle poi sempre verso
un indaco di burrasca

e il gesto è quello bloccato
appena prima di concedere la curva
dello zigomo. Ti penso per metà
disegnata da un vento angolare
per metà perduta nel panneggio
e anche questo – certo – andrebbe
messo nel conto però

 intanto qui è stagione di frastuono
di piccole ferite
quel poco che regge devo adoperarlo bene
sarà per questo che ti penso dove non siamo
mai stati che non aspetto di raggiungerti
che come nei sogni la fine
non arriva mai.

* * *

Da “Oltre il margine” (Fara, 2015)

 LA CAMPANELLA

 Arianna presidia l'angolo del piazzale
con il suo metro e ottanta da pallavolista
Michela strappa alla sigaretta l'ultimo tiro
mentre Massimo contende a Giorgia il rovo dei capelli.
Leonardo gorgheggia “Bella prof” e Silvia
si accorge ancora una volta che è impossibile
contenere la massa inerziale del seno
e ne ride con Marta – testa rossa contro testa bionda.
Controluce a malapena distinguo
la sagoma di Monica – troppo scarso l'ostacolo
che frappone al sole – alle sue spalle Alberto
disarticola il gesto del saluto.
È ottobre ma fa già freddo
alle sette e tre quarti. Si prova di tutto
il boccone di pizza il caffè cattivo
della macchinetta il finto cazzotto.
In fondo lo sanno anche loro
è sempre o troppo presto o troppo tardi
c'è sempre un passo in più o in meno
una parola che non si fa in tempo a dire.
Ci vorrebbe troppo per spiegare
e anche così sarebbe tutto sbagliato.

* * *

 Esattamente

Potrebbe essere una giustificazione
il fatto che oggi a Santa Maria Rossa
almeno metà del cielo sia serena
e che l'altra metà – nonostante
i cumulonembi che torreggiano
pronti a scaricare pioggia –
sia gentilmente modellata dalla luce
questa luce dorata quasi orizzontale
che depone lungo la strada le ombre
dei tronchi e gonfia il rosa
della tortora appollaiata sul cancello.
È così grande il cielo a Santa Maria Rossa
alle cinque e ventisette del pomeriggio
esattamente a quest'ora in questo punto.

 * * *

Da “Un posto per la buona stagione” (Qudu, 2016)

SOTTO LA FASCIATURA

pelle morta – nera
quella nuova
di un rosa commovente. L'indice
leggermente obliquo ingrossato alla nocca
ottuso al sangue.

Eccomi – pensavo – scortecciato.
Guardate
la gemma inturgidire osservate il tempo
flettersi.
Avrete riconosciuto
la curva cieca il lavoro demente.

Dovrò riportarlo a casa
con cautela regolare le lancette
sintonizzarmi alla primavera
reimparare il vagito.

 * * *

VARIANTE DI VALICO

Fu dopo che cominciammo a salire di quota
e a incontrare corvi grigi e neri ai bordi della strada

fu dopo che le nuvole collassarono
dopo che ebbi imparato il raggio delle curve

ma soprattutto dopo che cominciammo
a sussurrare per non fenderle il sonno
insomma fu allora che mi dissi: l'aria si è fatta sottile
e intorno non c'è una casa né un palo della luce
solo alberi nudi

e l'amore non smette mai di cogliermi alla sprovvista

ma a te dissi soltanto: fra un po' il peggio è passato
e mi bastò che tu avessi sorriso.


* * *

Da “Convergenze” (in “Approssimazioni e convergenze”, Pietre Vive, 2017)

 CONVERGENZE

(Tiziano, La Venere di Urbino)

A metà della larghezza a un terzo
dell'altezza – in perfetta proporzione aurea –
la mano accarezza il pube
e in quel triangolo d'ombra tutto converge

la luce oscura dei velluti la diagonale
dorata della carne l'inutile stanza
affacciata su un tramonto invisibile
– il ridicolo ronzio della vita –

e nient'altro dicono i suoi occhi neri
se non l'esilio la tenerezza crudele
dei capezzoli la pelle intangibile
il groppo morto dei desideri.

 * * *

DEUS ABSCONDITUS

(Caravaggio, Le sette opere di misericordia)


Avete un bel cercarmi: potrei essere
l'uno o l'altro degli angeli in caduta
o nascondermi nel buio catramoso
inviolato dalle torce

 o ancora aspettare il mio turno
per un sorso denso di pietà
prima di finire anch'io disteso
su un lenzuolo sporco

 state sicuri che ci sono
sbucherò fuori al momento giusto
per ora lasciatemi dormire
in questo grumo di vernice.

* * *

Da “Sono un deserto” (Lietocolle, 2019)

 (Dis)somiglianze

 Il bambino di Aleppo
ha la faccia di mio figlio.
Non sto parlando per metafore
e nemmeno sto dicendo che gli somiglia.
Il bambino di Aleppo
ha i capelli di mio figlio il suo naso
l'espressione dei suoi occhi
quando sta per addormentarsi
il suo petto liscio nel punto
in cui soffre di più il solletico
persino la stessa macchia di sangue
sulla fronte di quando era caduto
dalla bicicletta dritto contro un sasso.
Devo correre di sopra alzargli la maglietta
controllare che non abbia sullo sterno
quei due occhielli di carne bruciata
per convincermi che non sia lui
che sia davvero lì a giocare in camera sua.

* * *

Apocalisse, 3, 17-18

 Non è un buon segno quando i fiumi
scorrono alla rovescia
il giorno del giudizio si fa attendere
le tartarughe abbandonano il guscio.

Lo pensavo a Settignano
una domenica sera al tramonto
mentre saziavo per la terza volta una fame ottusa
la pioggia nera macerava i capannoni dell’Ikea
e si spegnevano i pensieri delle ore piccole:
il vero gesto è lo scarto minimo
tra bellezza e fallimento
l’odore sfuggito all’igiene.

 Ma io potrò aspettarti in eterno
accanto alla pista dei carrelli
l’articolo invenduto tornerà allo scaffale
i clienti continueranno a pensare a denti scoperti
e la finta Coca-cola a fermentare nei tubi