venerdì 5 ottobre 2012

“Non leggete per divertirvi o per istruirvi. Leggete per vivere”



Se sulla carta d’identità fosse richiesto un segno particolare anche della personalità, annoterei sulla mia “indole dissacratoria”. Non è un merito, non è un demerito. Penso sia una condizione e vada accettata con un minimo di consapevolezza per non subirla. Ecco, forse, il motivo per cui la citazione di Flaubert l’ho sofferta come una vera sassaiola: un’iperbole. Mentre individuavo percorsi per un pensiero sul tema, pianificavo di ricondurre in un alveo più tranquillo quello che, secondo me, è il frutto di una buona lettura. Nel contempo mi frullavano le solite esortazioni a leggere di un padre ai figli. E loro, i figli - come del resto anch’io adolescente con mio padre – liquidano puntualmente il genitore con la promessa consolatoria di un “lo farò dopo” che un adulto navigato traduce all’istante in un “mai”. Molti, tra giovani e adulti, i refrattari alla lettura, come non comprenderli ? Leggere è un lavoro e richiede impegno: decifrare segni, rintuzzare la fantasia, visualizzare immagini e situazioni, tutte attività che implicano energia e sforzi.


Quello della lettura è hobby solitario, oltre che faticoso. E lo è fino a quando non si impara ad interagire col libro, coi suoi colori, i personaggi, le piogge, i soli, le nebbie che iniziano ad abitarci dentro come in un film, l’orizzonte che separa dalla vita reale è molto sbiadito. Solo allora avviene il miracolo: il libro, raccontando, comincia a raccontarci: anche noi iniziamo a scorrazzare tra quelle pagine. Leggere è come un viaggio in treno, di andata e ritorno. Usciamo da noi stessi e, attraverso i vetri della fantasia e di un vissuto che, a lungo andare, indossiamo come un’ombra fedele, osserviamo e decifriamo. Poi si ritorna a casa, a noi stessi, con un carico di visioni in più. A volte leggendo ho come l’impressione di acquisire una “visione uccellina” del tutto, tanto è alto il punto di visuale a cui eleva un particolare scritto.
Convincere sulla totale onestà di quella citazione – di cui lenta mi sono persuasa – vorrebbe chiarificare soprattutto a me il sentiero battuto e, come il trailer di un film, accendere qualche flash.

(…scrivo) per raccontarmi e nel racconto
riscattarmi o flagellarmi;
per non spezzare il filo del sussurro
che corre tra io e me;
per una manutenzione sana della libertà
contro barre invisibili.
Scrivono dal paradiso e additano scorciatoie
e dall’inferno giurano di non voler stare altrove.
Ma qui il bene e il male sono ancora soglia
     ed è proprio un’incognita che legittima la speranza;
     qui, scrivere, è voglia che t’accende e
     quando non è bestemmia, è un tentativo di pregare.

Leggere e scrivere sono attività collaterali, propedeutiche, complementari - e chi più ne ha più ne metta. Le motivazioni che spingono a loro e i benefici che se ne ricavano, sono spesso comuni ad entrambi. Il più delle volte si inizia a scrivere – a me è capitato! - per una sfida con se stessi: scoprire se si è capaci di veicolare in uscita sensazioni simili a quelle che, leggendo, un altro ha traslato in noi. Solo dopo ho colto altri piaceri, anzi risposte, a domande di cui ignoravo l’esistenza e quanto mi pesasse l’attesa di una soluzione.
Oggi io scrivo perché, consapevole, godo di questa forma di comunicazione. E scopro l’acqua fresca se sostengo che, sia leggere che scrivere, la favoriscono. Ma vorrei puntare l’attenzione sulla magia di quell’incontro tra lettore e scrittore  che avviene, di solito, al margine dell’ultima pagina. E’ lì che si scopre la confidenza radicatasi tra i due, lì che nasce un tu autentico e viscerale, per aver condiviso il breve o lungo cammino di tanti pensieri.
Scrivo perché è attività che aiuta a reggere anche il dolore: e sa farsi necessità se serve a rimuovere tutte le bende consolatorie che si frappongono tra me e lui. Ma nelle sole vesti di lettore, riconosco, e da sempre, che i pensieri dei grandi mi rendono meno disponibile ad ipocrisie e viltà. Sono l’aiuto più valido a scandagliare le emozioni da cui nessuno si può sterilizzare.

E se è vero che – Borges docet -  Leggere è un’attività successiva a quella di scrivere: più rassegnata, più civile, più intellettuale, sarà anche vero che l’aggettivazione usata dallo scrittore argentino non sarà casuale e rimanda ad una lettura consapevole. Di quelle che, addentrandosi nella biografia dell’autore e nell’ambientazione storica del racconto, riescono a cogliere, dietro le pieghe del vivere di ogni personaggio, le piaghe del narratore, utili a decriptare personalità, eventi, vite.

Nel film di Ermanno Olmi, I Centochiodi,  il protagonista, un docente universitario, conficca dei grossi puntelli nei libri di una antica biblioteca. Il motivo del gesto penso sia la chiave di lettura del film: il docente, al maresciallo che lo ha arrestato, confessa - in un dialogo che affascina perché l’interlocutore non è più l’ufficiale ma l’anima lontana e ritrovata del professore - che nessuno dei libri da lui letti ha mai equiparato il piacere di un caffé con un amico. E sono d’accordo. Ma il benessere che dispensano quel caffé gustato con quella buona compagnia, in quel preciso momento, sarà emozione che si riproporrà nella pagina - quasi inciampando - di un libro, e non bevendo un altro caffé. Ed ecco ancora Borges: Il libro non è un’estensione del proprio corpo ma della memoria.

E tiro le fila di questo mio pensiero e scopro del leggere le sue funzioni, vitali per l’uomo se stimolano comunicazione, introspezione, evocazione e chissà quanti altri sentieri benefici non ho saputo riportare. Quella di Flaubert è citazione che ci sta tutta in questo e in ogni tempo, se ci si accosta alla lettura non per deviarsi, non per consolazione, né per istruirsi, o almeno, consentiamoci un’altra finalità e teniamocela come stella polare: un libro può e sa decifrare la realtà che ci circonda e spingere alla coscienza della significazione, consapevolezza che fa la differenza tra vivere di gusto e non.

f.to: Io



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