giovedì 8 agosto 2019

Camminamento n. 8 - Rita Pacilio

CAMMINAMENTI

trincee o scavi, comunicazioni tra opere
fortificate e le immediate retrovie (… praticamente Poeti)


Camminamento n. 8 - Rita Pacilio


Luminosa coabitazione tra l’io cosciente e la sua spiritualità -dove spiritualità sta per “tutto ciò che non tocco, di cui sconosco confini e ampiezze, eppure partecipa ad ogni mia scelta volontà azione e reazione”.
Sarà questo buon rapporto a non farle temere -lo dicono i suoi versi sempre polposi, tutti, in una sorta di sotto-testo! – il nostro luogo di destinazione. Come un procedere per attimi e per eternità che, per lei, non è un “dopo” ma un sempre in cui stabilizzarsi a partire da ora: ecco che nel verso si dipana la lotta, il dolore, la gioia guizzosa della sua napoletanità – Napoli, per i napoletani, è patria nella patria. Se l’amore è filtro per eccellenza, l’amare deve farsi testimone solido e indiscusso. A leggerla, torna l’onda del silenzio in cui è immersa, l’elaborazione di un pensiero che non si accontenta e sposta di continuo i suoi paletti; si avverte una spalla solida.

Rita Pacilio, insondabile profondità, è “cosa” difficile da contenere e -come dire… - finalizzarne la poetica in poche battute. Per certo non sbaglio se identifico, con l’ausilio di avverbi tra loro intercambiabili, il suo centro: sommessamente cattolica, irrimediabilmente umile, sconfinatamente umana. Fortunatamente per noi, Poeta.

A domanda, ha risposto ...


*

Se la poesia non è, mi dicono, ‘realtà assoluta’, vi si avvicina però di molto avendo una tensione forte verso la realtà e una percezione profonda di questa, perché la poesia si situa al limite estremo di una cooperazione dove il reale sembra assumere forma dentro di lei. […] il poeta si investe di una surrealtà che non può essere quella scientifica (dal discorso di Saint-John Perse in occasione del Nobel)
Se non è assoluta né può affiancarsi a quella scientifica, che tipo di realtà gratifica il poeta?

In poesia si parla della vita, di ogni suo aspetto che può essere celebrato o denunciato. Il poeta, infatti, si cala nella realtà, quotidiana o storica, osservandola e descrivendola in maniera visionaria sfruttando gli strumenti culturali che ha a disposizione. È un ricercatore dell’essenza, si pone domande, cerca risposte, scansiona le componenti essenziali della realtà sviscerando dinamiche conflittuali e contraddittorie, al fine di ritornare alle cose semplici. È fragile e forte allo stesso tempo perché vede ciò che non è scontato andando avanti nel suo compito sociale educativo/formativo molto importante per se stesso e per l’umanità. Credo che ogni scrittore/poeta, debba sapere che bisogna avere consapevolezza e rispetto di ogni forma reale, cosa assai differente dalla percezione soggettiva e psicologica, attraversando e militando nella vita, in modo umile, da pensatore, nominando l’innominabile e mettendosi al servizio dei vissuti umani di tutti i tempi per fare letteratura (do per scontato l’utilizzo del linguaggio originale, autentico, onesto, esageratamente moderno, attuale). Il poeta ha il dovere, dunque, di arrivare alle persone, addirittura oso dire, per migliorarle. Che tipo di realtà gratifica il poeta? Sicuramente quella che ricerca il vero. 


Si increspa il lago di Nemi
in un gesto di doloroso silenzio
a vederlo mordere nuvole
l’affanno arriverebbe in cima.

Salgono visitatori
in una strada scoperta riaffiorano
in mezzo alle piante
ragazze di colore nude a metà

pascolano paure
e cosce raggelate. E fissano
l’inquieta luce della sera
come fosse un contatto.

Chiedo perdono al mondo/come lo chiedo a te/per il mio peregrinare stanco/per l'urlo muto/per la corsa che mi affanna e dice/. Il destino è un cerchio senza fine/.

(Tratta da ‘Gli imperfetti sono gente bizzarra’ – LVF, 2012)

***
Quando sono qui non ho parole
lascio fuori il mio uragano
incustodito, lascio a casa

la rabbia di cenere e carbone,
la tua bestemmia
pronunciata in basso, fino allo scorno
persuadendo il vizio dell’amore.

Le ore e i giorni ci portano contro
ci scontentano la vita, il letto,
questa miserabile ombra che scende
prima del tramonto, prima dell’inedia.

Certo non lo fai apposta ad andare via
fanno così le persone anziane, senza
speranza, fanno come te quando ti bagni
gli occhi e poi scompaiono naturalmente.
 (Tratta da ‘Prima di andare’ poesie e lettere d’amore – LVF, 2016)


*
Da Note sul mestiere della poesia di Mark Strand : lo scopo di una poesia non è l’aprirsi, o il raccontare una storia o un sogno a occhi aperti; e tantomeno una poesia è un sintomo. Una poesia è se stessa e l’atto attraverso il quale è nata. È autoreferenziale e non è preceduta necessariamente da un qualsiasi ordine, tranne quello di altre poesie.

Vorrei chiederti quanto e se ti ritrovi in questa affermazione di Strand che, così perentoria, pare non lasci spazio alla benché minima confutazione.

Per rispondere a questa domanda bisognerebbe leggerlo, rileggerlo, studiarlo a fondo per mettere insieme idee ed eventuali assunti provocatori sulla poesia e si potrebbe scrivere un saggio sulla sua poetica, sull’etica e sulla straordinaria, lucida suerrealità di ogni suo verso. Mi limito a dare una risposta semplice e breve: mi trovo in accordo con Strand quando afferma che la poesia non è cronaca di fatti reali o immaginati, né una esternazione psicologica e diaristica dei moti interiori di colui che la crea. Infatti, essa nasce dalla vita, dalla quotidianità delle cose diventando l’indizio di se stessa, del suo accadere, cioè quel segnale autentico e originale che la rappresenta come accidentalmente reale, universale. Il poeta è autoreferenziale, dice Strand, cioè si fa strumento responsabile di un progetto poetico, si fa soggetto pensante e dialogante con il mondo, con la memoria assorbendo e riportando a sé e in sé ogni cosa. Forse per questo la poesia basta a se stessa? È stato poeta che ha narrato l’assenza, la morte, il turbamento dell’esistenza e ha lasciato a chi legge, dunque a noi, il compito di assimilarne il senso, lo spiazzamento del desiderio, l’inquietudine e la consapevolezza del mistero, l’accettazione e il dubbio del vuoto. Posso affermare, onestamente, che è veramente difficile scrivere una poesia, fare arte (non dimentichiamo che Strand ha enunciato indicazioni importanti per chi si avvicina alla scrittura poetica e su cui bisogna riflettere tantissimo) dopo aver attraversato la genialità di poeti come Strand, però, possiamo imparare da loro e da lui molte cose, tra cui l’eleganza e l’incontro. Questo compimento di conoscenza lo auguro a me stessa e a tutti coloro che amano mettersi in discussione ogni giorno.


***
Il primo atto rende muta l’anima
lembo senza sonno falciato dal nulla
lascia ritornelli tra fili di ulivo
ad ogni ora raschia la raganella.

Sale con cura l’azzurro elementare
ti aspetta davanti al cancello
espandendosi come sterile lago
emergono occhi di piogge rifratte.

Non è possibile fermarsi a cena
alle sette il sonno li seleziona
diventano un ronfo lucidato
pochi volatili virano a cerchio.

Sul pavimento cadono strani odori
nel cestino non c’è carta ma lingue
sparite regole, maschere e lacci
l’ossigeno di notte non fa vento.

Sono loro quella composta di cose
che ha intristito la vita ai giusti
il falco pallido sul collo
costole che non erano previste.

Loro sono lì, nel posto più lontano della solitudine.
(da ‘Gli imperfetti sono gente bizzarra’, LVF 2012)

***
Il filo di nylon delle mutandine bianche
si arrotola sul muro di casa. Nel segno buio
diventa una stanza sporca, divisa
che si affaccia nell’ombelico pulito

una finestra aderente all’interno
svuotata di frontiera e di paesaggio
strappata sul lato destro, un sipario
che tira la bocca giù, verso la spalla.

Lo stesso filo lega saliva in verticale
da lei a lui e prepara la seconda morte.
Le spinte sono un tango assassino
un passo avanti e uno indietro

accade così l’incontro, la convulsione
quotidiana, un cataclisma.
(da ‘Quel grido raggrumato’ LVF, 2014)


*
 Invece noi usiamo la parola per la pratica della vita e ci pare che, come la usiamo per la pratica, la possiamo usare anche per il fare della poesia. Non è così: la parola pratica della vita esige una convenzione, la poesia esige emozione. Il poeta deve sapere sempre mettere in relazione la propria emozione, il proprio moto, con la parola che usa. E siccome il moto nasce dalla profondità di noi, deve saper mettere in relazione la propria interiorità con la parola. (Franco Loi da Il sole 24 Ore del 10.8.2015)

Periodicamente si parla di crisi della poesia -sempre più rinomate Case editrici puntano più sul personaggio che sulla sua produzione poetica, valorizzando autentico ciarpame-, pensi che sia da mettere in relazione a quanto afferma Loi e, quindi, farla risalire comunque ad una povertà della parola e all’incapacità di questa di interfacciarsi con l’io profondo?

A giugno dell’anno scorso Cesare Viviani con il suo libro, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che … (Il melangolo, 2018), ha provocato, in maniera dura, il mondo della letteratura creando risentimenti e l’opposizione di molti poeti ed Editori, addirittura, fino a farsi odiare. Sicuramente il libro denuncia i falsi valori del nostro tempo e sviluppa ragionamenti sulla crisi della poesia moderna, ma, a mio avviso, falcia anche l’erba buona, quella che non ostenta il proprio sapere e la propria bellezza: quella che non sempre è conosciuta, quella che non vive sotto i riflettori del palcoscenico. Affermare che la poesia sia finita presuppone una conoscenza capillare di tutte le uscite dei libri di poesia, non solo di quelli promossi e distribuiti dai gruppi editoriali maggiori che, per motivi di marketing, riducono la letteratura a commercio fine a se stesso, ad apparenza, a tornaconto economico incoraggiando, soprattutto, gli autori emergenti. Una conoscenza minuziosa e analitica, dunque, vista la proficua produzione, che richiederebbe anni di ricerca e studio e che mi piacerebbe si potesse realizzare, perché credo che non sia stato letto tutto. Bisognerebbe cercare di organizzare gruppi di studiosi distaccati da campanilismi vari che, come nella Medicina o nella Fisica, potessero riuscire a darci non elenchi di nominativi, ma il distillato dell’estro creativo espresso dal nostro tempo (le Antologie, per esempio, che racchiudono nomi di poeti etichettandoli per zone territoriali, sesso o altro, anche se partono da buone intenzioni, finiscono per essere lavori sociologici superficiali, autoreferenziali e riduttivi convertendo la letteratura a cosa minore. Ma la poesia è veramente catalogabile?) Coinvolgere, dunque, scuole, associazioni, editori, lettori, critici per confrontare idee e giudizi potrebbe essere il tentativo, forse arduo e utopistico, di uscire definitivamente dall'io dilagante della supponenza. Ho fatto una lunga premessa per arrivare a dire che condivido pienamente il pensiero di Franco Loi, poeta che stimo da sempre, per l’onestà intellettuale e per l’eleganza del suo pensiero. Sono anni che sostiene di dover fare i conti con la parola profonda e non con tutto ciò che la inquina. Loi punta sull'essenza dell’arte e sul come/cosa riesca a dare e a stare al mondo. Secondo me, da sempre, l’ambizione e il desiderio di affermazione/appagamento degli autori ha imbastardito l’arte e, nel nostro caso, la poesia. I personaggi da circo ci sono sempre stati: quelli che hanno venduto e vendono il proprio corpo per un briciolo di notorietà, quelli che riescono a influenzare i lettori attraverso i media, quelli che pagano cifre esorbitanti per avere un marchio editoriale di alta reputazione, quelli che si dimenano usando tutti i mezzi possibili pur di emergere. Del resto, anche i Premi letterari più prestigiosi, recentemente, hanno creato precedenti pericolosi legittimando le appartenenze parziali, anziché cercare, valorizzare, sostenere e premiare la visione poetica del libro. Certamente si procede per approssimazione e moda, un andazzo che fa del male a chi crede nell'arte della scrittura e a chi ricerca incessantemente la verità del mondo. Personalmente, sono nauseata e demotivata da tutto questo e spesso, come autrice, sono frequentemente tentata di uscire di scena, di appartarmi e dissociarmi dal resto. Mi interrogo sulla fine dello studio della parola poetica più che sulla fine della poesia. Ecco, lo studio diventa secondario e strumentalizzato. Ridotto all'accessorio meno importante di tutto il castello costruito intorno alla poesia. Bene, senza fare moralismo spicciolo, credo che stiamo parlando del mondo di sempre, quello di tutti i tempi. E se l’essere umano è sempre lo stesso, possono cambiare le politiche e le economie, ma non potrà mai cambiare l’emozione e i sentimenti che lo guidano. Mi piace concludere con una parola che accompagna la mia vita sin dai tempi dell’adolescenza: responsabilità. È anacronistica, fuori moda? È moralistica? Ritengo, nonostante tutto, che solo in maniera responsabile sia possibile arrivare all’io profondo di cui parla Loi. Solo responsabilmente è possibile misurare la nostra poesia con i riferimenti alti del passato puntando sul senso, sul linguaggio autentico, sul dubbio consapevole di doverci mettere continuamente in discussione. Solo con responsabilità è possibile raggiungere la speranza, l’onestà.

***
Capiterà a tutti di essere una boa
in mezzo al mare, una boa
dalla forma di pesce supino
dalla voce umana con braccia di violino

al posto delle branchie l’anima
spugna polposa e fili d’erba i capelli.

Si diventa così quando si va via

un nome senza nome
rimasto tra le palpebre e la mente
giovinezze disperse in un altro viaggio.
Quando anche le viscere svuoteranno

residui della traversata
resteranno bucce vuote
involucri rancidi, mezzi sorrisi,
il seno ormeggiato.

Questo siamo quando lasciamo
una casa, un fiore, chi abbiamo amato.
Capiterà a tutti di essere una boa

in mezzo al mare, pesci, uccelli dal ventre tremante.
(da ‘Prima di andare’ – poesie e lettere d’amore – LVF, 2016)

***
[…] Avrebbe voluto vedere la sua faccia, mentre a sua insaputa lo
spiava dal telefono.
Nessuno può dire cosa ho intorno all’anima
la carità tiene a bada i dubbi flebili
di quest’ora aprono iris le ali ai passeri
nell’aria si dilata la distanza.
Non manca niente al silenzio
avanza il labirinto dell’andata
la perdita, l’insistenza dell’eco, null’altro
adesso siamo liberi in modo vergine
mentre debole scompare la paura. […]
(da ‘L’amore casomai’ LVF, 2018)


*
Ho […] notato in me stesso certi stati che potrei benissimo definire poetici, dato che alcuni di questi alfine si sono trasferiti in poesie. Mi ci sono trovato senza alcuna causa apparente, sono sorti da questo o quest’altro caso; si sono sdipanati secondo la loro propria natura, e di conseguenza mi sono trovato per un certo tempo proiettato fuori dal mio solito stato mentale. E in seguito dice ancora che «lo stato della poesia è del tutto irregolare, incostante e fragile», e che noi «lo perdiamo, così come lo troviamo, per caso» (Dal saggio Poesia e pensiero astratto di Paul Valéry)

Valéry usa la locuzione “fuori dal mio solito stato mentale”, è in questo “portarsi fuori da sé” che si sostanzia la grazia precaria dello scrivere poesia?

Sappiamo tutti che Valéry è stato un poeta ossessionato, dal linguaggio, dalla scrittura metrica tanto da sacrificarne il significato/ispirazione e da essere considerato un poeta difficile/illeggibile.
Puntiglioso, preciso, ironico, rigoroso, studioso della parola, Valéry si è considerato più volte un mistero a sé stesso. Saggista di imparagonabile levatura, si è interrogato sullo stato della poesia, sulla vita. Quando riprese a scrivere, dopo anni dalla famosa crisi intellettuale de La notte di Genova, lasciò alle spalle il decadentismo per dare alla razionalità, alla consapevolezza di sé, la parte più sostanziosa della sua penna. Nonostante dichiarasse rabbia e disgusto di fronte alla fragilità umana, fu poeta dall’animo sensibile; infatti, dai suoi memorabili Quaderni emergono spunti malinconici e romantici, sentimenti, pensieri ed emozioni di un uomo profondamente scosso dall’esistenza e dalla trasformazione del sé. Queste pagine lo rendono assolutamente attuale, così come i suoi preziosi saggi sulla scrittura poetica da cui apprendiamo l’instancabile processo mentale di autoanalisi e di messa in discussione.    
Portarsi fuori da sé, dunque, sta a indicare proprio questo: il compito arduo – non l’unico – di ri-conoscersi, ri-generare e ri-valutare la propria condizione profonda (psicologica, razionale, sensoriale) al fine di saper leggere, o meglio, interpretare, ciò che il mondo ci dice. Il poeta, tra le altre cose, riscrive la storia dell’umanità mutandola e rendendola attuale, presente, moderna, nuova in un sottile gioco di intuizione, di consapevolezza del venire dopo della scrittura, di oggettivazione del sé (universalità) restituendo alla poesia, con estremo equilibrio, le proprie conoscenze.

***
ABBIAMO TUTTI UN BLUES DA PIANGERE

Cercano un fatto ripetutamente
senza enfasi, senza esagerazione,
un rito ripetuto prima della mano
in segno di saluto dietro le quinte.

I sorrisi sciolti per la circostanza
le ironie blues sugli scalini
ricongiungono vibrazioni flemme
mutano la tentazione della scena

spingono l’alleanza, la frettolosa
pausa del controllo sotto l’attesa:
bisogna sacrificare l’egoismo
impedire ai versi di mutarsi prosa

l’intenzione è mettersi sottosopra
avventurarsi nel fiato gradualmente
lamento alla rovescia sul terzo rigo
l’orecchio e il basso staccano convinti.

Abbiamo tutti un blues da piangere, 1973 è il titolo del secondo album del PERIGEO, formazione musicale composta da GIOVANNI TOMMASO (violoncello e basso, Leader), FRANCO D’ANDREA (tastiere), CLAUDIO   FASOLI (sassofoni),  TONY  SIDNEY (chitarra),  BRUNO BIRIACO (batteria). In questo lavoro, edito nel 1973 dall’etichetta RCA Italiana sono inseriti brani orientati verso il Rock, dal Jazz rock al Funky jazz.
(da ‘Il suono per obbedienza’ – Marco Saya Edizioni, 2015)

***

Di fronte

Lui fumava sul balcone. La neve a terra e tanto silenzio. Lei
raccoglieva dall’altra parte alcuni vasi mossi dal vento. Cadde.
Non urlo per pudore. Nessuno la raccolse.

Così semplice il mattino
la gazza sul balcone
– mi dici: e una gazza, ascolta attentamente –
discorsi insoliti ai tigli di fronte
già sfioriti. E tra i capelli una forcina
tenuti tutti insieme i nodi di ieri,
la paura di perdere qualcosa.

(da ‘L’amore casomai’ – racconti. LVF, 2018)

Bio bibliografia

Rita Pacilio (Benevento 1963) è poeta, scrittrice, collaboratrice editoriale, sociologa, mediatrice familiare, si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro, di letteratura per l’infanzia e di vocal jazz. Curatrice di lavori antologici, editing, lettura/valutazione testi poetici e brevi saggi, dirige per La Vita Felice la sezione ‘Opera prima’. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è Presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio. Sue recenti pubblicazioni di poesia: Gli imperfetti sono gente bizzarra (La Vita Felice 2012) risultato vincitore di numerosi Premi, tra cui Laurentum 2013, è stato tradotto in francese Les imparfaits sont des gens bizarres, (L’Harmattan, 2016 Traduction en français par Giovanni Dotoli et Françoise Lenoir) e per Uet Tunisi la traduzione in lingua araba (a cura del Prof. Othman Ben Taleb)Quel grido raggrumato (La Vita Felice 2014), Il suono per obbedienza – poesie sul jazz (Marco Saya Edizioni 2015), Prima di andare (La Vita Felice, 2016). Per la narrativa: Non camminare scalzo (Edilet Edilazio Letteraria, 2011). La principessa con i baffi (Scuderi Edizioni, 2015) è la sua fiaba per bambini; Cantami una filastrocca è un quaderno operativo per la Scuola dell’Infanzia (RPlibri, 2018) e ‘La favola dell’Abete’ la sua storia per la magia del Natale. È stata tradotta in greco, in romeno, in francese, in arabo, in inglese, in spagnolo, in catalano, in georgiano, in napoletano. A marzo 2018 la pubblicazione dei racconti in prosa poetica: ‘L’amore casomai’ (LVF)