sabato 25 maggio 2019

Camminamento n. 5 - Gabriella Bianchi



CAMMINAMENTI

trincee o scavi, comunicazioni tra opere
fortificate e le immediate retrovie (… praticamente Poeti)


Camminamento n. 5 – Gabriella Bianchi




Letta per caso e amata subito perché, da subito, la sua poesia si fa dialogo e compassione: sovrapposizioni di ferite in un patire insieme.
 Versi come particole che si sciolgono tra lingua e palato, un sapore a rilascio lento, tanto quanto basta a chiamare a raccolta le emozioni -che lo riguardano, che ti riguardano, in quel misterioso intreccio autore/lettore/testo.
 Letta per caso e amata subito, mi chiedevo perché Poeti del genere debbano capitare per caso; perché gli attuali addetti ai lavori, quelli deputati a scandagliare la gramigna dal grano, si sono limitati a un benevolo sguardo: Gabriella non è dama alla corte di nessuno –oggi, per molti, è così: alcuni Poeti illustri  si fanno feudo e appoggiano solo i loro cortigiani. Eppure, Mario Luzi -e qui parliamo di Autorevoli a tutto tondo-, in uno scambio privato, trova buone le sue poesie, un dettato fine e vibrante. 
  E ritorno amaramente alla citazione di Whitman: per avere grandi poeti occorre avere anche un grande pubblico – dove grande pubblico sta per onestà di cuore.

A domanda, ha risposto ...


“Ho smesso di fare letture in pubblico perché gli applausi mi parevano umilianti”, così Roberto Roversi in una conversazione privata con Davide Nota (su Pangea dello scorso 25 aprile). Resiste come un pudore nel poeta che, in qualche modo, lo trattiene a porgere quanto lui stesso ha scritto, a incarnare nella voce quanto di lui è rimasto sulla carta. Eppure, il poeta ha bisogno dell’ascolto – oppure no?

Il poeta ha necessità di essere letto. L’ascolto è secondario. Capisco Roberto Roversi perché il plauso a volte è d’obbligo, mentre la voce della poesia ha bisogno di posarsi sull’animo dell’ascoltatore e per questo possono servire vari tempi di lettura. Le orecchie sono spesso distratte. Il poeta non si deve mai svendere come un cantante o un circense. 

Cara Angela, io la penso così. Non so se la risposta è esaustiva. Nel mio piccolo la penso allo stesso modo di Roversi. A volte sento leggere delle stupidaggini in versi che riscuotono grandi applausi e questo mi fa riflettere sulla necessità o meno di esibirsi.

 Anch'io la penso come te: credo si tentenni sempre se esibirsi o meno, anche perché -che la si scriva o la si legga- poesia è una sorta di curvatura riflessiva su di sé, quasi ad attestare la corrispondenza tra il verso e la propria visione -leggasi poesia onesta di Saba - che mal si concilia con qualcosa di strombazzante quale potrebbe essere un’esibizione in un contesto che non favorisce quella postura.
E restando a Saba, per lui la poesia è una sorta di condanna all’isolamento e, allo stesso tempo, desiderio di integrazione: ma «le parole di tutti», i «valori di tutti», ogni possibile identità con gli altri appaiono irraggiungibili perché la poesia funziona come una remora, come un «azzurro spiraglio» che il poeta conserva [...]

 La poesia conduce a una forma di isolamento, se non fisico comunque psicologico. A me piace stare in mezzo agli altri ma, il più delle volte, non riesco ad entrare nel giro del pensiero  altrui in quanto  lo avverto troppo distante dai miei valori. Allora mi accontento di restare da sola con il mio azzurro interiore, ma resto per lo più ustionata.

Siamo nani sulle spalle di giganti, la somma di quanto, nel bene o nel male, abbiamo letto e per cui abbiamo tremato. Quale poeta sta sul fondale della tua poesia?

Con impeto e vigore sono entrati nella mia incipiente poesia alcuni nomi di poeti che non avevo mai conosciuto, in quanto non presenti nei testi scolastici: Charles Baudelaire in primis con ​ Arthur Rimbaud, quindi la fluida musicalità e i colori di Federico Garcia Lorca, la potenza di Pablo Neruda, il ritmo narrativo di Cesare Pavese. In seguito ho aperto i libri di T. S. Eliot e non li ho mai richiusi. Soltanto più tardi ho scoperto la delicatezza di Emily Dickinson e i forti respiri delle russe Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. Mi sono ritrovata nel palazzo ​ immaginario di Elsa Morante

 In una lettera al signor Pizzul, Saba scrive
 Caro signor Pizzul, quando ero piccolo (abitavo di fronte la farmacia di suo padre) credevo ci fosse, per ogni malattia, il rimedio infallibile, contenuto in una bella fiale, per lo più azzurra. Poi ho saputo che così non era, e -per consolarmi di questa e di molte altre delusioni- ho scritto questo libro.
Quale specifica funzione terapeutica svolge la poesia?

La poesia è terapeutica solo fino a un certo punto. Lo sono invece altre forme letterarie quali il diario e l’autobiografia. Se la poesia fosse terapeutica, molti poeti non si sarebbero suicidati (A. Rosselli, I. Bachmann, Sylvia Plath, A. Storni, N. Campana, ecc.). Trovo che la poesia non contenga in sé questa proprietà. Direi che ne dà soltanto l’illusione quando si inizia a scrivere, in quanto ebbri di quel vino che viene dal profondo. Poi il vino finisce quando si inizia il percorso di ricerca e quando il pensiero scandaglia il fondo cercando risposte.

Bio bibliografia

Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia.
Qui si è laureata in Lettere ed ha svolto lavori di archivista e di bibliotecaria.
Ha pubblicato otto volumi di liriche. Scrive   poesie   da   sempre, ed   anche   se   ha allargato   i   suoi   orizzonti   culturali interessandosi di critica letteraria e d’arte, di Etruscologia e di narrativa (ha scritto vari racconti), la sua chiave di lettura della vita è e resta la poesia.   Suoi testi sono presenti in antologie locali e nazionali. Sulla sua scrittura così si è espresso Mario Luzi: “Le sue poesie le ho trovate buone, il dettato è fine e vibrante. Alcune sono vere e proprie riuscite”.

Titoli delle sue pubblicazioni:

L’etrusca prigioniera (1984)- Umbria  Editrice Perugia
Canzoniere (1990)- Calliope Editrice
Giardino d’inverno (2005)-Porzi Editoriali
Cartoline da Itaca – quartine -(2005)-Guerra Edizioni
Il paradiso degli esuli (2009)- Fara Editore
Il cielo di Itaca – quartine -(2011)- LietoColle
Quaderno di frontiera (2014)- Fara Editore
Notturno (2017)- Fara Editore



Testi


                                               (senza titolo)

“La morte nasce in noi
un poco alla volta,
come un lento
e difficile piacere
che lascia prevalere
il sonno”

da: “L’etrusca prigioniera” (1984)

DONNA DEL TRASIMENO

La mia vita era  solo nuda brina:
sedermi all’ombra frastagliata di pioppi
in una insenatura di lago
e non aver pensiero che non fosse sogno,
o attesa di un volo.
Tu scrivevi graffiti su spiagge lontane
mentre negli occhi  ti scorreva il mondo.

Mi hai trovato  alla pietra miliare
dei nostri venti contrari
e  mi hai rapita in una stretta tenace
sciolti gli ormeggi, le vele aperte al viaggio.

Il lago come noi è mortale,
specchio sigillato di breve orizzonte.
Ma tu che hai respirato
incensi lontani,
che hai conosciuto gli aromi pungenti
dei regni estremi
non hai cuore di lago, amore mio.

                                    Lascialo a me
questo grande e debole acquario,
a me che non conosco
i fiati infiniti del mondo.

Da: “Canzoniere” (1990)

MADRE SENZA ALFABETI

La tua casa è arroccata tra i coppi
e le nuvole
legata con funi strette
agli alti rami del disprezzo.
Consumo sette paia di scarpe
e con il fiato in gola
busso alla tua porta:
appare sulla soglia la tua ombra
vasta d’animale di pianura
e i tuoi occhi torvi non mi fanno entrare.
Per te sono inferiore ad una ladra
sono l’adultera schedata
dal sinedrio dei pubblici giudizi.
Solo la morte
con lo schermo di marmo
interposto tra noi
aprirà la tua bocca alla pietà
o allo sputo.
Da: “Giardino d’inverno” (2005)

TRITTICO

Prima di Natale
il padre morì
come un albero vecchio
reciso nella tarda età
e raggiunse gli altri giusti
nella città eterna.

La madre carnivora era immersa
in pomeriggi di telenovelas
e con l’età aveva barattato
il bastone delle percosse
con quello dell’appoggio.

La figlia ammaestra sciami di mosche
seduta su pile di tarocchi e bisce
e ride al sibilo dei venti.

Da: “Giardino d’inverno” (2005)

QUARTINE

“Padre, i tuoi muschi eterni
odorano d’incenso,
lieve conforto
alle mie vele nere”

 “Ruota il cardine di settembre
con tremolio lieve.
Il vento sfoglia
il registro delle anime”

“Morire soli
in una virgola di pioggia
nella distrazione degli angeli
persi nel vortice umano”

da: “Cartoline da Itaca” (2005)

(senza titolo)

“Con i libri di Emily e di Arthur
attraverso metropoli deserte
d’umanità
e le grigie banlieues
nella fornace estiva

strade feroci
sommerse nei sistri di cicale
e in miscele venefiche

dove la parola incide segni
come un rasoio
e la solitudine
ha forma di croce”

da: “Il paradiso degli esuli” (2009)

IL PARADISO DEGLI ESULI

Il  mattino ammaina le vele
della notte
e innalza quelle nere
del giorno.
Un’altra guerra è annunciata
nei cielo dell’Iran
o dell’Iraq.

I bambini pensano che Dio
sia una Multinazionale,
un’organizzazione per la pace
o una macchina bellica,
a seconda che siano di fede araba
o cristiana.

Fuori dalla finestra
c’è sempre caligine
come se dalla terra spuntassero
ciminiere trivelle antenne
impianti nucleari
al posto degli alberi.
Il cielo è altrove
perduto in lontananze abissali
disperse negli atlanti.

Cerco parole inutili
per misurare l’assurdo.
Il paradiso degli esuli è questo:
un cuore semplice che piange
gli indicibili orrori
e che racconta fiabe ai bambini
sotto una quercia amica.

Da: “Il paradiso degli esuli” (2009)

QUARTINE

“Nel cielo sopra Itaca
tra guizzi di rondini
siedono perplessi
angeli feriti dagli umani”


“Vecchie litanie mandate a memoria
come le rime di Pascoli e Carducci
sorreggono il presente
dove la TV è l’omega”

“Credo nel vangelo della mia poesia
perché ogni poeta vero è un messia
che conosce a memoria le leggi
e l’ordine del cosmo”

(da: “Il cielo di Itaca”, LietoColle, 2011)

OMAGGIO A SANDRO PENNA

Uscir con Sandro Penna la mattina
fuori città, sedendosi sull’erba,
tra giochi di farfalle e di bambini
parlar d’amore, di poesia, di niente.

Le mura di Perugia un poco strette
frenavano il ritmo del suo canto
e nasceva la noia. I suoi fanciulli
lo aspettavano altrove con la gioia.

Gli mancavano il fiume e la città
vasta e beata, ed i meriggi al sole
e i seducenti giochi dell’amore.

Poi si è mosso con agio dentro l’ozio
come se fosse una virtù divina
e come un dio novello ai quattro venti
ha seminato un credo di letizia.

Vorrei stringere un patto di amicizia
con la purezza sua un po’ randagia
ma il meriggio è alla fine, lui se ne va
con la sua storia calda dentro un treno.

GENESI

Vengo da gente scalza
da case nude di libri
con pentole attaccate ai chiodi.
Vengo da gente scura di sole
e chiara nel filo dei pensieri
privi di nodi.
Gente dal viaggio breve
chiuso nel giro stretto
di un morso di serpente,
di una caduta dall’olmo,
di un parto urlato al vento,
di una falce affilata sul polpaccio.
Gente senza l’ombra di una storia
accampata in pianura presso un fiume
in una casa di pietra rozza
con donne che chiudevano la sera
in un amen
e uomini che asciugavano il sudore
nel fumo di un toscano.
Vengo da gente schietta e pura
come un frutto sul ramo,
gente intagliata nel silenzio
che scaldava la sorte nel calore
dell’unico cappotto,
riposto con cura nella stanza
odorosa di cotogne.


IL RITORNO

Mio padre entrava in casa
con la sera incollata alle vesti
opache di lavoro
e chiudeva la porta
lasciando fuori il nord
con il suo blu cupo
rigato dai fischi del vento.
La sua anima stillava delusione
come una stanza umida in penombra.
Le sue scarpe bagnate di pioggia
restavano fuori sulle scale,
il suo volto teso
sbiancato di stanchezza
aveva perso la forma del sorriso.
Ma aveva ogni tanto
una sorpresa per me, un libro
nascosto nel fondo di una tasca.
Si sedeva a tavola e un soffio di cielo
restava con noi, leggero
e profumato di minestra.
Nella gola del camino
qualcuno parlava e cantava,
forse una scolaresca sperduta
senza la luna
tanti anni prima,
o un gomitolo di voci di cicogne.

(da: “Quaderno di frontiera”, Fara Editore, 2014)

IL SECONDO ADDIO

Chissà a cosa pensavi
mentre il tuo giorno si accorciava
e la luce si faceva lama sottile

e vedevi le Parche nell’ombra
con le forbici in mano

e la tua mente si apriva in rami
come il delta del Po
che vedemmo nella luce di settembre
salendo sugli argini
e lungo i cortei dei pioppi

chissà qual è stato l’ultimo tuo pensiero
l’ultimo barlume
io l’avrei voluto per me
insieme al tuo ultimo respiro

per farne un talismano contro il male
contro il mondo feroce
dove resto, inutile comparsa,
che ha perduto il filo
di ogni discorso.

Da: “Notturno” (2017)