mercoledì 3 maggio 2017

Nazario Pardini su Piccoli forse di Angela Caccia


dal Blog di Letteratura Alla volta di Leucade

Ho già avuto il piacere di respirare il profumo intricante e suasivo dei versi di Angela Caccia e già avevo posato l’attenzione sul suo dire nuovo, originale, ora apodittico e conclusivo, ora espanso e narrativo, insomma vario e articolato, atto a soddisfare le richieste  di un’anima zeppa di storie e vicende da mutare in poesia: memorie, sensazioni, emozioni, riflessioni, contaminazioni, indecisioni, coscienza dell’umana esilità, visione di un amore che si abbevera al secchio dell’esistere per farsi immensità, infinitezza sulla futilità dell’attimo. Ma si sa quanto sia difficile questa declinazione. La poesia richiede immagini fresche e cristalline, combinazioni sintagmatiche che colpiscano e scuotano il lettore per la loro incisività; per il loro effetto trainante nel lungo  cammino tra realtà e verità. E qui tutto questo c’è; esistono le fresche ed oscillanti acque di un ruscello che cercano il mare nel loro variegato cammino fra colline e pianure, fra inceppi, anche, che sembrano interromperne o ostacolarne il flusso. Come in un poema che non sempre scivola leggero e eufonicamente compatto; non sempre su vette di alta tonalità; se così fosse non si apprezzerebbe il Bello.  Un testo appetitoso che chiama all’attenzione, all’educazione del silenzio, alla concentrazione, alla riflessione, al gusto della Bellezza che chiede al poeta simbiotiche fusioni fra significati e significanti, fra vertigini intime e contenitori linguistici. E così mi  ero espresso a proposito di una mia recensione a un suo testo:“… Una verbalità di intrecci secchi e apodittici che si sfuma in una mèsse di parole pronte a fare del dubbio una verità di suoni e di radici in un sogno che neppure il giorno, con tutta la sua luce, riesce a rendere vero; a distoglierlo da una notte che incombe dato che la morte è privilegio per chi vive:
(…)
Laghi castani
appannati da un fondale
che la sabbia sconvolge

atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi (Per i tuoi occhi),

Linguismo definito, risolutivo, dove il verbo, da solo, fa da verso tanta è la sua soluzione, la sua profondità, la sua essenza traslata, il suo potere iperbolico nella magra riflessione dell’esserci.
 Ed è così che si fanno avanti i dubbi, e le incertezze del nostro vivere. Le insicurezze che tanto inquietano il percorso esistenziale della Caccia. Per questo il suo “Poema” si fa fortemente umano, carico di quei tanti perché che non trovano soluzione...” (N. Pardini: recensione a Angela Caccia. Il tocco abarico del dubbio).
Credo che sia proprio il caso di ricorrere ad una affermazione di Pavese per sottolineare la continuità espositiva, il filo rosso, il leitmotiv che fa da copyright nella poetica della Caccia: inquietudini che si riverberano in un canto“splendidamente monotono”, come sapeva dire, da par suo, Cesare Pavese, della poesia. Una monotonia che fa da carta d’identità, da marchio di fabbrica nella ricerca attenta, vissuta, meditata, sofferta e fattiva di una parola che vada oltre il senso, oltre l’etimo, per agguantare quella luce che abbagli il dubbio; sì, il dubbio, quel patema del forse, del può darsi, che morde lo stomaco e ci rende vulnerabili di fronte al sapere. Una parola sempre accanto, vicina, disponibile ma ardita, intrepida, svincolata, di fattura umana e oltre, della cui compagnia la Caccia non può fare assolutamente a meno, dacché di essa si ciba; è essa che la conduce sulla strada della possibilità, verso un difficile approdo per una navigazione in mari folti di tenebra e di mistero. E credo che il piatto forte uscito dalla cucina di Angela sia proprio quello della grammatica poetica. Sì, a volte si incontrano poeti che si esprimono con una metaforicità vellutata e convincente. Ma qui la cosa è ben altra: la parola si abbandona generosa, superba e ardita a incastri etimo-sonori di alta valenza creativa.  La parola, sì, quel mezzo umano, prettamente umano, che non di rado non è sufficiente a ricoprire gli abbrivi emotivi di un’anima tutta volta a dire di sé, ma soprattutto a colmare quella divergenza che c’è fra terra e cielo. È così che il verbo si arrotonda, si smorza, si sforza, si dilata, si contorce, ed azzarda mete di difficile ancoraggio:

il cielo brucia più forte dell’inferno
e amarci ora sarà immunizzarci
da tutto e per sempre

(fosse tua la perdita, o mia, mi abituo
a declinare la parola morte, denominatore
che non fa sconti a chi resta)

non chiedermi il perché
di questi adombramenti
il vento – a volte – ha carezze tristi.

Inferno, perdita, morte, sconti, perché, adombramenti, carezze tristi. Tante riflessioni sul giorno e la notte, sulla vita e la morte, su eros e thanatos. Non è che la vita sia poi quella stretta circonferenza in cui ci dibattiamo per trovare uscite da perimetri invalicabili? L’amore stesso, sentimento dei sentimenti, risente di questa pressione del forse. E si fa turbinio di inquiete risonanze che chiedono certezze; allora non resta che azzardare ipotesi, avventure verso mondi altri. Ed è umano azzardare voli che ci liberino, in parte, dalla nostra insufficienza terrena. Ed è così che chiediamo alla parola  dei contorcimenti sinestetico-emotivi, o iperbolico-allusivi, proprio perché il linguismo non ci è sufficiente a concretizzare emozioni e intuizioni che rasentino l’azzurrità di quei mari  stagliati su orizzonti di infinita misura, dove la dicotomica intrusione fra rien e tout scava caverne impenetrabili dentro il nostro essere mortali:

a te che a sera rientravi e d’inverno
avevi addosso l’odore del vento, tu
il gigante io lo scricciolo, e m’abbracciavi
e colmavi di pane la madia della mia fame
(non vi furono altre braccia che mi resero
mai così densamente regina)

Non è di certo cosa da tutti i giorni fare, di certe iuncturae, vellutati resoconti iperbolici; abbracci di verbi per immagini di urgente resa lirica (e colmavi di pane la madia della mia fame).
Quattro i sottotitoli della silloge Piccoli forse (Dalla torre campanaria, Dal grande terrazzo, Dalle sughere e dalle pietre, Da una casa sull’albero), che, avvicendandosi in un  climax di ricerca ontologica e di umano esser-ci, sembrano mantenere tutti quegli interrogativi che inquietano il fatto di esistere; tutti quei forse che fanno della nostra storia un cammino in bilico fra incertezze e supposizioni; fra chiarezze ambite e luci di fari a misura umana; anche se dobbiamo riconoscere che in questa nuova pubblicazione la Caccia compie o cerca di compiere una parziale rimonta verso un gruppo di fatti reali che si erano allontanati in vista di un traguardo di onirici orientamenti; un parziale progress che più l’avvicina all’inarrivabile senso del tutto; a certezze e a contatti con una realtà che chiede consonanze; e lo fa ricorrendo a una ricerca stilistica, anche se originale e innovativa, non sempre spontanea; a volte dettata da una razionalità costruttiva, più che da una invenzione emotiva; comunque i versi, più compatti, e meno segnati da segmentazioni prospettiche, trovano più linearità verso una ascesa all’enigmatica complessità delle questioni umane:

tornare ad amare è come
ritrovare una direzione
essere ancora capaci di una
carezza – eppure, così scollati
dai più che la cercano –

riprendere a leggere di me di te
dal rigo abbandonato
dai desideri miei e tuoi
di dare loro una casa
in cui ritrovarci la sera

  D’altronde i poeti, e Angela lo è, sono strani personaggi che vivono coi piedi a terra e l’anima in alto, mischiata in quei forse di un volo senza riposo; ad ali spiegate; con l’unica “gioia di essere tristi” come afferma V. Hugo.

Che fine fanno
gli amori abbandonati
l’affetto verso le cose
le amicizie un po’ ventrali
così irrimediabilmente perdute

ci sarà -nel corpo
da qualche parte- un cimitero
di morti innocenti o una sorta
di cellario per stampelle usate
e ormai accatastate

ci sarà un pezzo ristretto di
cielo che s’apre d’improvviso
a gabbiani feriti con ali riparate
o il tratto di una strada che
si intravede
ma solo guardando a ritroso
e un fantasma che vagola
dispettoso da un argine all’altro

ci sarai anche tu che
portavi la tramontana da fuori,
e ghiacciavi le parole –accucciate,
nella bocca, tra loro- e m’abbracciavi,
semplicemente m’abbracciavi,
il tuo freddo al mio calore
perché fossimo in due
a reggere l’inverno dai vetri

Nazario Pardini



DAL TESTO

di notte è il solito festino di fantasmi,
limbo brumoso tra le maglie di un sogno

ti ospito e di noi profumano le pietre
se torni non sfiorarmi, ho cieli di cristallo



non tu ma il mio amarti
portò alla luce il meglio di me
gli occhi al sorriso, alla buona parola

più di un abbraccio le nostre mani,
– sincronia di battiti – aderivano, i palmi
a distendersi come labbra inumidite

non tu ma il mio amarti
portò il bello alle narici, un odore
di campi nel vento di gennaio

di tanto – di tutto – soltanto l’orecchio
non pareva sanato, su ogni musica era
il tuo passo cadenzato che si allontanava 




per raccontarci val bene una musica
e – sì – scelgo di noi un tango argentino

l’equazione ci vincola, lo stesso convulso
fondale gonfia l’onda – non v’è differenza
di materia sospesa tra il suono e il mare –

fiammante l’abbrivio, ci accasciamo infine
alla sponda, stremati minuzzoli di noi 





a Gaia, nipote appena nata

la rosa, quando s’apre
s’apre all’azzurro
le brilla il sole sulla fronte

io che conosco le case
velate di pioggia, l’avanzo
della notte che ammorba
l’aria del mattino voglio
di me una stilla
nelle tue arterie, un puntino
sulla cartina muta del cuore

bellezza che torni e incanti,
è nei tuoi occhi che vado
oltre la mia morte

ti sia promesso
il presagio di un nome,
più veloce il tuo passo
della nuvola ruzzolante sulla strada,
che almeno tu vada oltre la siepe –
lì, da qualche parte, Proserpina
ancora coltiva le margherite 







al piccolo Michele

due mesi
e una manciata di giorni
estorcono amore

il seno turgido non è solo
lì per nutrire, già nel latte
sono i sogni di una madre

su tanta immagine bella
lo sguardo paterno
è uno scudo tagliente

nella parte convessa
lo schianto della tenerezza
è un urlo feroce

la mia vita per la tua vita nascente


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