lunedì 17 agosto 2015

Riti di seduzione di Ottavio Rossani



Ho tra le mani “Riti di seduzione”, l'ultima silloge di Ottavio Rossani, poeta calabrese ben noto al mondo letterario contemporaneo - da anni vive a Milano, ma la sua pronuncia non ha alcuna inflessione nordica. È anche registra teatrale, pittore, scrittore, apprezzato critico letterario, cura per il Corriere della sera il Blog Poesia. Farei fatica a capire quale, tra questi generi, faccia da traino se non fosse per un mio personale postulato: non c’è Poeta che non sia poeta e … tanto altro. Non è un voler essere di parte, ma un dato: si spiaggia alla poesia –certo, per inclinazione congenita- ma soprattutto per quella potenza di sintesi -raggiunta e sudata attraverso studio e letture- che aggruma la pienezza di significati e fa la differenza col resto: Ignotamente, dunque, te ne vai./Scoprirai maldestramente qualcosa,/qualcosa che già da sempre era/informe e urgente nella tua mente  (Lettura pag. 17).

 Ma è solo questo, un addensatore di senso la poesia? L’abilità a legare fili –lontani, nascosti, dai più impensati- e intessere poi magici broccati?

Al di là di finalità “squisitamente terapeutiche” – per ragioni di spazio riduco a un virgolettato il concetto di catarsi, e che Aristotele mi perdoni- dello scrivere in genere,  scrivere di poesia è un lungo e interminabile dialogo tra un io e un me, dove “lungo” sta per: il Poeta si vede negli anni, il tempo forgia la sua poetica che si compatta e, a volte, raggiunge la vetta –mi ritornano le parole di Montale “ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso”. L’ occasionalità -da cui  un paio di libri di poesie- più che la volontà di un cammino, è un capriccio che svela il bluff dietro l’angolo; “interminabile” come interminabile -e coriaceo e sfiancante e gratificante- è quel dialogo intessuto col proprio sé per amicarselo in qualche modo, conoscere e riconoscere il demone che ci abita e concedergli –concederci- la tanto agognata realizzazione dell’essere: è il concetto greco di eudaimonia, felicità.

Questi i benefici sommari dello scrivere di poesia, quali quelli del leggerne?

Facciamo che un libro di poesia sia una porta appena schiusa.

 Al lettore, disposto a varcarne la soglia, si chiede la generosità di un ascolto che, pagina dopo pagina, diventa oltremodo attivo se la poesia ha la forza di schiudere, a sua volta, altre intime porte. Da un timido dialogo lettore/poeta, sarà talento del primo –leggasi: esperienza, capacità di ripiegarsi su se stessi, di accogliere, modularsi, rigenerare, rapportarsi o prendere le distanze, e così via – e la forza poetica del secondo, a far si che due mondi si  accostino si  sovrappongano o si prolunghino. Il libro di Rossani, almeno per me, non ha attivato nessuno dei tre verbi di sopra: è stato subito un balzo in avanti.

In un verso asciutto -oserei dire geometricamente perfetto- una poesia dalle forti intonazioni esistenziali, ma anche poesia di pensiero, limpido rigoroso. In tutte, quei lievi, quasi impercettibili, cedimenti dell’anima di fronte al dolore, l’incognita, la delusione per un’illusione che si spacciava speranza: è come se da un fondale salisse una bolla alla pelle del mare, e il sole la gratificasse concentrandovi i suoi riflessi.

Devi domandarti perché accadono
Rarissimi ricchi incontri
(pelle vecchia, pelle giovane)

Quando la fusione dei corpi è avvenuta
Si potrebbe anche chiarire
Dove si blocca o si scatena la creazione,
forse si scoprirebbe che c’è troppo dolore. (Mistero creativo, pag. 19)

Nella lirica Peluche (pag.20) tutto si gioca su un archetipo dell’infanzia – un orsacchiotto di peluche appunto- un filtro attraverso cui si racconta una favola bella che ha sperato invano in un lieto fine

L’orsacchiotto gioca anche con lei
Le ricorda ruvida mano
Le racconta nel sogno una favola turchina.

[…]
Il ragazzo col viso d’uomo
Resiste all’ondata di pianto,
sa essere cavaliere galante
e suscitare incanti.

L’orsacchiotto ha camminato con loro,
narra di estasi perdute,
di una storia d’amore che voleva essere eterna.

Nella poesia Promontorio (pag.22), che riporto per intero, un quotidiano che ha in sé una gioiosa frenesia, ma un’improvvisa incrinatura lo turba – un sospetto sul corpo ingabbiato da dolore-, da qui in poi un’altalena la speranza che cerca di avere la meglio sul pervicace insinuarsi della tristezza. Il finale è un pastello:

Scroscia la doccia, stride una persiana.
Un tonfo nella sala e musica in cucina.
Nel corridoio s’incrociano inquieti sguardi.
Il giorno è già un fastello di rumori.

Tenero risveglio dopo un bellissimo sogno.
L’alba rosa scivola su un forte desiderio.
l’ira allo specchio fronteggia il tempo.
Un sospetto sul corpo ingabbiato da dolori.

Sorprese, gioie, attese, delusioni, crolli.
Ma ora tutto risplende del sole di giugno.
Nel pomeriggio dilaga la malinconia.
A sera, si rivedono travestiti di stanchezza.

Torneranno inverni e altre voraci estasi.
Nell’annebbiato promontorio di ogni mattina
continuerà negli occhi l’incerto augurio
d’una vela sul mare che sventolando se ne va.

Tra le due liriche – Soverato e Milano- non saprei quale scegliere: due angoli di visuale, due diverse visioni di uno stesso volto e un unico punto di fuga che sprigiona armonia:

Punta di sabbia nel mare,
frange di sole nel golfo,
mattine paludate di brezza,
sere incendiate di cremisi. […]
Eppure questa lingua di terra,
sole,sale e venti africani,
ha grande fame d’amore.
E ci affogo, senza scampo. (Soverato pag.30)

Cielo di cristallo opaco
sui grattacieli alteri.
fumo di pensieri stranieri
di notte alla Centrale.
frastuono di ferraglia
di giorno davanti alla Scala.[…]
Nei Giardini una studentessa
è stuprata e uccisa.
Porta Venezia incornicia
una mostra di colori umani.
È tutta una storia vera.
Ma Milano è un’altra cosa:
un sogno della giovinezza
che s’è dispiegato soltanto
nella polvere stratificata.
Come sempre, resterà la pietra. (Milano pag. 31).

Ci sono poi – immancabili in ogni silloge che si rispetti- le poesie della solitudine. Liberarsi da lei richiede un atto di coraggio per nulla scontato: dinanzi una finestra sulla notte siamo noi a decidere se concentrare l’attenzione su quel volto riflesso sul vetro o lanciare oltre lo sguardo, in quel blu elettrico dove i tratti del volto si spargono si confondono e sembrano farne parte. E fin quando rimarrà sospesa la nostra adesione, in quella densità fitta di stelle, uno spazio vuoto continuerà ad aspettarci. Né scrivere di poesia –mi sia concessa la digressione- equivale ad uno stadio cronico di solitudine -il verso è sempre foriero di baccelli di realtà intorno ai quali le nostre radici “devono” avvinghiarsi- semmai è riflesso e frutto di una buona capacità di isolamento, tipo quella che ti fa restare agganciato a un pensiero che, all’improvviso, si accende in un tram strapieno di gente.

Rinchiuso in questa scatola
sono un puntino luminoso,
tra inquiete ombre vaganti.
Cuore generoso apri la botola.
Uscirò come un fulmine di vita. […] (Come, pag. 36).

La silloge si compone in tre parti: Seduzioni, Cartoline, Finestre aperte. Nella sezione Cartoline, flash chicche, la voce del verso pare un assolo accorato su un coro che canta a bocca chiusa, altre volte è la trave, il pensiero esatto, già soddisfatto di senso, tant’è che a lui si poggiano -e si diramano- altre impalcature.

E poi le poesie dell’amore perduto, dolore che il Nostro consuma fino all’ultima goccia, non per autocommiserazione o strane forme di compiacimento, ma perché è una strada obbligata e irta: chi vuole ritrovare la luce -che sta in vetta- non può disdegnare la salita. Una per tutte, si intitola Dolore (pag.65)

Così forte il dolore
che sembra festoso.
Non ho altro da dire
amore mio fuggito.
L’arpa inventa per me
melodie antiche.
Come galeoni dispersi,
nei miei occhi passano
di te movenze e gesti
risonanti di allegria.
Era il tuo fascino.
Ora è sortilegio.

A questa pare fare pendant -e confermare quanto esposto prima- la lirica Percorrenza (pag. 70) che chiude la seconda sezione, Cartoline

Per sopravvivere
nella tempesta
seguo la traiettoria
disegnata da un fischio
persistente e fastidioso
Nella totale assenza di luce.
Andrò molto lontano.
Lungo il tragitto troverò
qualche buon compagno.
Anche da solo tuttavia
arriverò. Arriverò.

L’ultima sezione, Finestre aperte, raccolgono e scandagliano attimi di passato, ora prossimo ora lontano, col classico “senno del poi”, quello che, per ultimo, passa ad un ulteriore crivello, con maglie ancora più strette, una traccia della nostra storia, perché diventi pura essenza e faccia da segna passi per il futuro

Il padre s’avvide della prima
pronuncia virile del figlio.
fiero comunicò a tutti la novità.
Il ragazzo scappò via
per nascondere il suo rossore.
pianse chiuso nel sottoscale,
con la testa tra le mani,
tre giorni e tre notti.
Così si sfebbrò e cominciò
a guardare le ragazze. (pag. 79).

E veniamo al titolo, Riti di seduzione. È dalla prima pagina che mi chiedo a chi siano rivolti questi riti; il Nostro è il soggetto attivo che li intesse, o un soggetto passivo che inesorabilmente li subisce? Per giungere ad una conclusione, devo fare una premessa: se dovessi raccogliere Ottavio Rossani in un aggettivo userei il termine parresiasta e dubito sbaglierei. Il significato di parresia si assomma genericamente in un “parlar chiaro”, ma nelle pagine che la trattano, raramente ho trovato la sua vera e imprescindibile pregiudiziale: quella curvatura riflessiva su se stessi –un lavoro non da poco che impone una presa di distanza dall’emozione che, se è foriera di impulsiva sincerità, non consente la dovuta lucidità- per raggiungere, prima di ogni cosa, la verità su di sé. Una riflessione che sia scevra da opportunistici compromessi o eccessivi avanzi di disincanto, solo così e a questo patto la parresia si fa pienamente virtù – e non la solita maschera indossata dal moralista di turno. Ecco allora che la parola premia e si fa trasparente, veicolo di sguardi trasparenti. A lei, Ottavio Rossani, ha celebrato i suoi preziosi riti, lasciandosi sedurre dalla parola giusta che, in un verso, colpisce e fa segno, seducendo, a sua volta, chi la legge.