lunedì 16 febbraio 2015

Paradosso - considerazione spicciola




Non amo gli aggettivi in poesia, tracce sbilenche di rossetto su labbra già spesse di sostantivo –due righi e ne ho già inseriti due, era a rischio il terzo!…

Il nome non può reggere una specifica realtà senza connotazioni,sarebbe come trovarsi di fronte un vicolo chiuso dopo una curva inattesa e stretta o, al contrario, in un enorme spazio con alle porte l’agorafobia.

Eppure non amo gli aggettivi, spiantano ferocemente i cirri che il nome irraggia e preserva da venti di certezze, assiomi tiranni, vedute confezionate e ristrette.

Così prensili al nome, sono foglie che insecchiscono presto, si impiccano da sole allo stelo e deformano quanto prima era parte di un corredo che identificava, restringendo il campo ad un particolare  che, anche se non lo ripudia, sacrifica l’universale.

Per quanto strano, credo che l’aggettivo stia alla ragione quanto il nome all’istintiva creatività. È lei, la ragione, la deputata a fare le pulci e sottocatalogare, nessuna come lei, ad esempio, sa immiserire nella parola cielo il suo connaturato alone -l’infinto -, imbellettandolo di attributi.

Si dovrebbe avere la forza di metterla in ginocchio quando s’affaccia un pigolio di poesia, tacitare quella pentola colma d’acqua in ebollizione: pensieri che confabulano tra loro per decidere chi innalzare a monumento del giorno attraverso gli aggettivi.

Io amo le stelle

pistilli senza più petali, prive di sottocategorie, così essenziali in una bellezza che sta tutta in un rimando, una sorta di alone (peraltro – paradosso- si tratta del sostantivo più aggettivato): fiore.